Chissà come fu il buio a cui si opposero i primi fuochi, quando i giovani occhi della specie ne circondavano le fiamme e domandavano di sé stessi a sé stessi. Tutte le notti in cui nulla mai si rivelò. I diluvi a cui seguirono i silenzi, le rinascite che non ebbero testimoni, clandestini dallo spazio profondo che sconfinarono nell’atmosfera terrestre e là bruciarono, contromano rispetto a Icaro. Vennero gli dèi a tempo determinato ed ebbero un appalto metafisico che durò finché pure loro non caddero sotto il proprio peso. Prima un’estinzione e poi un’altra ad annunciare la successiva, in un continuo e ciclico scompenso, intrinseco all’ordine delle cose.
Non riavvolgo il nastro, ma lo butto perché oggi la tecnologia è un’altra, eppure basta una fatalità, un cortocircuito, un calo di tensione, per riportare i presenti a tempi che mai vissero, se non per interposti decessi. Un guasto produce un errore e l’errore emana la più crudele delle risposte, quella che non ne ammette altre. Calano le tenebre quando non v’è elettricità che possa fare le veci del Sole. Le candele ormai servono solo per ordinare miracoli che non vengono più prodotti in serie. Spente le centrali e calati i sipari, s’interrompe l’ipnosi a corrente continua. Chi può riluce dentro di sé, senza allacci alla rete né attaccamenti d’altro tipo, convertendo le proprie energie interiori in lampi di sussistenza: in questo caso è tutto a costo zero, senza tariffe monorarie né biorarie, senza monoteismi né politeismi, senza oppiacei né loro succedanei. Nella notte così ristabilitasi, sopite le rivoluzioni industriali ed ella di nuovo vestita con l’oscurità che dall’oscurità venne, v’è chi vede tutto e v’è chi non vede nulla: le mezze misure spariscono sotto il dominio di un’interezza o di un’altra. Il pensiero finisce per addensarsi nell’unico rendez-vous rimasto ai sensi e là, in quell’assiepamento, i sismografi disegnano verità a misura d’uomo o di cosmo. Un corso accelerato di oblio, una sua parziale anticipazione, una prova gratuita laddove il tempo si arresta senza che nessuno possa o sappia identificarlo.
Come mi pongo al cospetto di tutto questo che di sé fa negazione? Potrei appollaiarmi sul tempo che rimane, ammesso poi che esso esista davvero. Potrei chiedere la chiusura anticipata di ogni ciclo di Krebs che mi riguardi o potrei questuarne di ulteriori. Potrei mettere una taglia od ogni mio atomo sull’istante corrente, ma se ne facessi partire la caccia poi dovrei guidarla davvero. Potrei annullare ogni condizionale obbligatorio, potrei, così se non volessi farlo rimarrebbe in vigore ma senza sanzioni: una misura proforma, come talora sembra ogni manifestazione creazionista o evoluzionista che sia.
Mi ha sempre disgustato il puzzo di fumo e per evitarlo mi sono precluso occasioni di vario tipo, alcune forse irripetibili.
Per me il tabagismo è vomitevole in ogni sua forma, infatti urta il mio senso estetico anche quando riguardo qualche film della nouvelle vague.
Non chiedo mai agli altri di smettere quando mio malgrado ne incontro le coltri, ma prendo e me ne vado, tanto cosa può mai capire chi deve ficcarsi qualcosa in bocca per stare tranquillo? ?
Ecco perché mi fa ridere che i Camel siano il mio gruppo preferito e che la copertina del loro album migliore (per me) faccia il verso ai pacchetti delle omonime sigarette.
Sono molto affezionato a questo disco e lo ascolto quando ho bisogno che qualcosa mi parli in un certo modo.
Ne ho la prima stampa in vinile, una remaster in CD di qualche anno fa e un’edizione giapponese in SHM-CD.

Era da marzo dello scorso anno che non riuscivo a serbare memoria d’un sogno, o almeno a farlo in una misura tale che mi consentisse di scriverne. Questa lunga assenza di ricordi onirici forse è stata specchio di una prolungata fase in cui il mio inconscio non ha avuto molto da dirmi o, forse, le circostanze e la modesta entità delle astrazioni lo hanno fatto esprimere a sussurri.
Mi trovo su una grande barca insieme ad altre persone di cui non rammento i volti ma che sono certo di conoscere. È bel tempo e le ore sembra che appartengano al primo pomeriggio. A un certo punto entro in sottocoperta e mi stupisco perché riconosco il volto di S., una ragazza reale con cui ebbi a parlare anni e anni fa su suo impulso. Lei non si avvede di me perché è intenta a fissare con aria stupefatta un bell’uomo che la osserva alla stessa maniera. I due si guardano intensamente, al modo in cui forse si può immaginare la folgorazione di un colpo di fulmine, e all’improvviso si baciano con grande trasporto. Alla vista di questa scena romantica vengo colto da un sentimento ibrido in cui amarezza, rassegnazione e ammirazione si mischiano insieme, perciò mi allontano e vado in un altro angolo della sottocoperta, ma qui l’ambiente cambia e mi ritrovo in un negozio in disuso presso una via commerciale che associo alla città della ragazza suddetta. Qualcuno mi dice qualcosa ma non riesco a capirne le parole. All’improvviso la scena cambia ancora e mi sembra di vedere un film a colori con Alberto Sordi (anch’esso simbolo della città a cui ho fatto cenno poc’anzi) sebbene egli non appaia e io sia convinto di conoscere il titolo della pellicola: il protagonista passa davanti a una grande struttura in cui c’è scritto “Liberal” a caratteri cubitali, poi percorre una ripida salita per raggiungere un grande monumento in marmo in cui dice e fa delle cose di cui non riesco a rammentare nulla: fine.
Per tentare una vaga interpretazione dovrei tirarmi su le maniche se già non indossassi una t-shirt. Sotto certi aspetti questo sogno ha degli elementi ricorrenti, ovvero la distanza e la voragine affettiva, ma contiene anche degli elementi criptici e inediti di cui non so fornire manco i contorni. Proprio in questi giorni pensavo e scrivevo di come certe esigenze emotive si affaccino con più convinzione nel corso della primavera, perciò immagino che il sogno dia conto di questa recente dinamica. Credo che l’inconscio si dimeni e voglia spronarmi affinché io compia quanto mai ho potuto o voluto compiere, ma le cose non funzionano in modo così meccanico e quindi mi attendo visioni analoghe nelle notti venture. L’unico volto noto per me è stato quello di S., di cui non so più nulla da parecchi anni, ma credo che la sua apparizione sia stata simbolica e non riferisse di lei in quanto lei. La mia non è una lotta interiore, ma è simile a un fenomeno atmosferico, un po’ come la pioggia nelle stagioni monsoniche. Forzature non possono esservene né in un senso né in un altro e se nulla nasce di spontaneo, allora spontaneo è il nulla stesso.
Arrivo spesso a un punto morto e non ne ho alcuno di riferimento, ma riesco sempre a trovarne uno d’osservazione. Guardo in avanti perché non ho gli occhi di dietro né il vizio della nostalgia, però non mi perdo nella stantia retorica di chi illude se stesso che vi siano alternative all’avanzata nel tempo: come tutti gli altri non posso che seguire l’andamento dell’entropia e le sue implicazioni più o meno dirette. Mi lascio trascinare dalla corrente mentre cavalco un coccodrillo di gomma.
In questo periodo non nascondo una certa e persino piacevole malinconia, però nemmeno la metto su un piedistallo in bella mostra: non sono né suo complice né suo delatore e arraffo quanto di buono mi concede. La primavera mi piace, ma produce in me moti d’animo che all’apparenza si contraddicono o si annichilano, come se vi fosse un rendez-vous di particelle e antiparticelle.
Il mio accentuato isolamento mi giova oltremodo perché mi concede vantaggi concreti, ma al contempo mi preclude ciò di cui l’attuale stagione è sovente simbolo o allegoria. In effetti sono regioni di cui non ho mappe né indizi, terre ignote ove non mi sono mai avventurato, ma almeno non passo l’estate in qualche villaggio vacanze a fare balli di gruppo: non si può avere tutto nella vita, o forse, a volte, sì. Posso parlare e scrivere a malapena per me stesso, con me stesso e in me stesso: così faccio da decenni. I miei dialoghi interiori, di cui queste righe infinite sono una delle molteplici espressioni, costituiscono un attenzione verso il mio Sé, l’amor proprio, la cura nel senso d’aver cura di me e, talora, anche della guarigione. Tendo a ripetermi perché mi faccio eco non una, ma più e più volte. Mi piace passare le mani sul mio volto rasato: detesto la peluria.
Nel risveglio e nel sonno (o viceversa)
Pubblicato mercoledì 26 Marzo 2025 alle 19:48 da FrancescoCon un segno di comando ristabilisco un punto d’equilibrio. Non v’è in me prossimità alcuna: non so più dove mettere la distanza e per questa ragione spero che un piccolo demiurgo mi subaffitti un altro universo. Assisto agli altrui crolli, prendo atto di scomparse repentine e odo le sterili rimostranze di chi prova a rispondere agli insulti del tempo: tutta fatica sprecata, talora come la vita stessa. Scrivo in questa mia lingua madre nell’epoca corrente, un futuro passato di cui forse resteranno vestigia digitali. Rubo l’infinitesima parte di un istante perché la mia destrezza non mi consente nulla di più, ma già questo piccolo furto per me è un esproprio giustificato e lo faccio rifulgere nell’oblio venturo di cui i silenzi tombali sono discreti ambasciatori. La vita prima della vita, la vita dopo la morte, la morte prima della vita: mi vengono in mente i regoli delle scuole elementari.
Mi perdo in cose così grandi perché non ne colgo di piccole o forse valorizzo le seconde sulle ali delle prime. Non ho mai pensato di prendere una laurea, però ricerco dentro di me una figura che abbia esperienze extracorporee: voglio fare l’addetto alle risorse metafisiche. Quando dormo provo a fare altro, ovvero tento di mandare messaggi onirici e di viaggiare sfruttando la natura non locale di una realtà diversa, dove la fisica classica non ha giurisdizione, ma non so se qualcosa di tutto questo mi riesca poiché non ne serbo mai memoria: forse sarebbe opportuno che prendessi sono con taccuino e matita. Sono un habitué del digiuno intermittente, perciò se fossi stato un apostolo avrei disertato l’Ultima Cena, ma anche se vi avessi preso parte mi sarei limitato al pane azzimo: l’agnello e il vino giammai.
Non amo i visi lunghi nel duplice significato dell’espressione e anche a quest’ultima mi riferisco nella sua doppia accezione, ovvero quella facciale e di veicolo semantico. Cosa resta dei giorni che furono? Forse le macerie che uno vuole farne a seconda della propria indole: è una sorta di arredamento per terremotati. Guardo dentro di me e fuori di me, però non mi capita mai di sbirciare attraverso il buco della serratura come insegna qualche vecchio b-movie e poi, anche se volessi farlo non ne avrei modo, difatti trovo soltanto porte aperte che aggettano su stanze vuote. Le chiavi posso fonderle insieme per farne un’unica cosa inutile o, in alternativa, posso nasconderle sotto il tappeto insieme alla polvere di stelle.
C’è qualcosa di bello e trascurabile nell’alba di cui talora sono il giovane o tardo testimone (dipende dai ritmi circadiani). Sovente scendo dal letto col piede giusto e forse l’altro si adegua al socio per non creare conflitti, però suppongo che i due si agiterebbero e finirebbero per venire alle mani se io provassi a ballare il flamenco. I più si muovono a tempo della danza macabra e io stesso lo faccio, ma esistono anche altri ritmi e figure diverse, forse persino più fatali: l’oltretomba lo immagino come una serata latinoamericana e per questa ragione, una volta dismesso il mio attuale corpo, spero di recarmi altrove. Ogni tanto mi chiedo cosa succeda a milioni di anni luce di distanza dal punto in cui mi trovo. Vi sono grandezze e realtà di cui la mia immaginazione non può fabbricare neanche la parvenza di un accenno.
Mi avvalgo della facoltà di respirare, ma secondo i crismi del pranayama. Non ho le farfalle nello stomaco e di norma preferisco che gli insetti volino in aperta campagna o nei giardini in fiore: il mio non è un atto discriminatorio. In passato ho sperato che certe premesse superassero il loro status, ma il loro unico sorpasso è avvenuto contromano in un frontale con la realtà dei fatti. Sono in grado di leggere una fine annunciata negli altrui entusiasmi, come se d’un film potessi indovinare l’epilogo dal suo titolo. Io doppio soltanto me stesso, anche perché altro non m’è dato fare.
Vivo negli spazi adiacenti al presente perché in questo periodo ho la sensazione che i miei giorni superino i limiti di velocità, ma non ho prove certe per inchiodare le ore a una staticità a cui, in ogni caso, nulla né nessuno può relegarle. Non colonizzo l’altrui attenzione e mi limito a regnare nel mio orticello, dove comodo sedo su un torno di sedani. Coltivo ortaggi e passioni solipsistiche perché non è male far di necessità virtù e poi, fatto trenta, far trentuno vien da sé, in particolare nell’atto di unire l’utile al dilettevole.
Le occasioni perse si sono perse da sole e non hanno avuto l’accortezza di lasciare molliche lungo il cammino: forse il loro destino era nel food delivery. Sarà il momento o il tenore di queste parole, però mi torna in mente un passaggio di “This must be the place”, film di Paolo Sorrentino, nel quale il protagonista dice: “Lo sai qual è il vero problema, Rachel? Passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice ‘un giorno farò cosi…’ all’età in cui si dice ‘è andata così…'”.
Preferisco un sano pragmatismo alla maggior parte di convinzioni ideologiche, dunque non è per l’astratto concetto di pace se credo che il piano di riarmo europeo sia il frutto avvelenato di menti malate. A suo tempo la Grecia, la quale aveva certamente delle colpe, non ricevette subito l’aiuto necessario per sostenere le proprie finanze e fu costretta a misure draconiane da un piano di rientro che si tradusse in macelleria sociale: all’epoca, nelle stime più pessimiste, sarebbe bastato un prestito pari a un terzo della cifra oggi prospettata per i futuri armamenti.
I maggiori partiti italiani hanno sostenuto il riarmo seppur in misura diversa, tuttavia questa larga convergenza dimostra come votare non serva a una sega giacché, in un sistema rappresentativo, le idiozie sfiorano spesso l’unanimità: questo, insieme alla pigrizia, è uno dei motivi per cui non mi reco a un seggio elettorale da dodici anni. Per mia fortuna non ho né voglio figli e quindi, in una certa misura, posso sbattermene le palle di tutto ciò. Mi diverte come la propaganda europea sia pari a quella russa, né più né meno: ognuno tira l’acqua al proprio mulino, a costo di affogarcisi.
Io non combatterei mai la guerra di altri e se ci fosse la coscrizione diventerei un disertore. Potrei ammazzare qualcuno se fossi costretto a difendermi, ma non andrei mai a sparare contro degli sconosciuti per onorare una bandierina o il nome su una carta geografica.
Secondo me certi slanci novecenteschi sono oggi anacronistici. In larga parte non esistono più le patrie, ma soltanto nazioni che sono gestite come aziende, luoghi dall’identità in caduta libera in cui la retorica del passato non può attecchire come succedeva una volta: è nell’ordine delle cose poiché le cose stesse mutano e nulla resta statico.
In ogni caso all’amor patrio preferirò sempre l’amor proprio.
Muovo verso le idi di marzo senza una ragione valida per chiamarle tali. Certi miei risvegli sono arricchiti dalla netta sensazione dell’avanguardia primaverile. Non sono il figlio di una stagione prediletta né io ne ho mai adottata una, ma certi anni ne preferisco alcune ad altre. Gli eventi si portano da casa le parole per descrivere sé stessi, come se dovessero fare un pranzo al sacco o un’ultima cena, perciò non occorre che io faccia servizio al tavolo od offici una messa di suffragio. Il nome delle cose non sostituisce le cose stesse e sovente neanche le indica.
Sono in procinto di concludere certe attività e d’iniziarne altre, tutte autoreferenziali come al solito, ma il termine delle une e il battesimo delle altre non hanno la simmetria di un cerchio perfetto: quest’ultima la trovo a prescindere da quanto si compia o sia ancora incompiuto. Pare che gli esami non finiscano mai, ma anche i lavori sono sempre in corso, specialmente quando s’intendano nel senso della fisica classica.
Le singole realizzazioni sono epifenomeni e hanno nessi causali che io non pongo a fondamento di alcunché. Ciò che accade, accade e non potrebbe essere altrimenti: da una certa prospettiva tutto può apparire pleonastico. Non lascio dietro di me briciole fataliste, inoltre, anche se tutto fosse già scritto, mancherebbe sempre una piena adesione al testo. I defunti interpretano alla lettera la lettera morta. Talvolta alle circostanze manca una creanza che non è loro propria, perciò possono presentarsi senza che nulla e nessuno le annunci, all’insaputa delle precauzioni di rito e clandestine rispetto a ogni calcolo. Non si può controllare tutto e questo lo sa bene chiunque sia partito con una flatulenza e l’abbia vista liquefarsi in diarrea. La materia è materia e la merda non è da meno.
Ci sono dei giorni in cui l’abbraccio di una principessa mi farebbe proprio comodo, o almeno una sua occhiata, una sua parola sincera, un suo libero e conciliante pensiero nei miei confronti, ma anche se mi capitasse una cosa del genere non avrei di che ricambiare: sulla mia testa non giace una corona e dentro di me non ci sono meriti specifici. Ho una grande autostima, però non arrivo al punto di farle prevaricare il principio di realtà. Mi piace vedere le cose al loro posto, anche quando un posto non ce l’hanno.
Queste mie sensazioni di mancanza sono occasionali e naturali, spontanei effetti del vivere umano, perciò non le nego né le nascondo giacché, se così facessi, mentirei spudoratamente alle mie introspezioni ed esse verrebbero meno alla loro funzione. Non ho niente da condividere e quindi non posso aspettarmi alcunché da chicchessia, ma ogni tanto avverto lo stesso l’entità dell’assenza, come se fosse un vuoto d’aria in alta quota: per fortuna non precipito e continuo il volo come se nulla fosse (ed è), altrimenti chissà che dolore! Non conosco l’affetto e da sette anni neppure gli affettati, però campo bene anche senza carne né carni.
Evidentemente ho nostalgia di qualcosa che non ho mai provato né vissuto e mi chiedo se quei moti risalgano a una vita precedente o se invece originino dal retaggio dei miei antenati: un’ipotesi non esclude l’altra. Vivo perlopiù rilassato e altrove rispetto a certe necessità: la sublimazione fa le veci della reciprocità emotiva e dell’erotismo, la masturbazione invece assolve i compiti biologici che scaturiscono dalle pulsioni. Sic et simpliciter!