Non riesco a fare una stima di quanti momenti svaniscano negli automatismi d’ogni giorno, ma più passa il tempo e meno riesco ad accettare queste perdite sulla rete neurale che s’interfaccia con il presente. In certi periodi devo compiere uno sforzo notevole per evitare che i miei pensieri si proiettino troppo in avanti e sconfinino oltre la loro giurisdizione. Non punto a cogliere l’attimo per ossequiare una frase fatta, ma cerco di limitare gli sprechi delle energie mentali e di quelle risorse che fanno capo a Kronos: in questo senso il solipsismo si rivela un utile strumento.
Non mi definisco attraverso la rincorsa di beni voluttuari e neanche punto ad avere conferme con la ricerca d’un qualche consenso o del riconoscimento sociale, ma ho in me dei paradigmi rispetto ai quali avverto l’esigenza di essere all’altezza: questi termini di paragone non sono statici e mutano nel corso del tempo, così come si fanno via via diversi modi e ritmi con cui mi ci rapporto. Sono autoreferenziale per comodità, ma non escludo che io possa vivere in un altro modo né mi stupirei se in futuro la mia esistenza facesse propri termini ancora inediti per lei e per me. Trovo sublime la sensazione di appartenermi sebbene non sappia descriverla e presenti un principio di esclusione da cui non posso prescindere. Posso fornire loro battesimi esotici e descrizioni capziose, tuttavia non sono in grado di cartografare quei moti interiori da cui sono portato e di cui, al contempo, sono portatore. Non indosso le scarpe di altri perché non mi starebbero nemmeno se fossero della mia misura e non ho bisogno di calzarle per lasciarci impronte sulle sabbie del tempo.
Ho terminato la lettura de Il cinema secondo Hitchcock, una lunga intervista che Sir Alfred rilasciò in più occasioni a François Truffaut. Sotto il profilo aneddotico ho trovato questo volumetto meno divertente rispetto a quello curato da Peter Bogdanovich per la sua brillante intervista a Orson Welles, anch’esso pubblicato da Il Saggiatore, ma ha saputo ugualmente carpire il mio interesse e mi ha dato qualche strumento in più per inquadrare il cinema tout court: in entrambi i casi ho appreso qualcosa dall’intervistato e dall’intervistatore giacché tutti registi.
Di Alfred Hitchcock ho visto trenta film, dal 1940 con Rebecca, la prima moglie, fino al 1975 con Complotto di famiglia. Mi viene difficile esprimere una preferenza assoluta in questa panoplia di opere stupende, ma devo ammettere un’inclinazione verso La finestra sul cortile, Caccia al ladro e Il delitto perfetto per la presenza di Grace Kelly, a mio parere la donna più bella e aggraziata che sia mai scesa su questo pianeta. Apprezzo molto anche Intrigo internazionale con il leggendario Cary Grant in quanto stilistico precursore di tutta la saga basata sul personaggio di James Bond; il già citato Rebecca, la prima moglie con una stupenda Joan Fontaine e L’ombra del dubbio sono altre due pellicole di mio sommo gradimento. Forse, tra quelli da me visti, gli unici film di Hitchcock che non sono riuscito ad apprezzare sono gli ultimi due, ossia Frenzy e Complotto di famiglia. Titoli eccelsi come Nodo alla gola, Psyco, Gli ucccelli e La donna che visse due volte parlano da soli.
Di recente ho visto quest’opera di Ferreri che mancava nel mio bagaglio di aspirante cinefilo e ne ho ricavato un’opinione ambivalente. L’aperta provocazione del regista mi ha ricordato, in parte e in una forma più attenuata, quella pasoliniana di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Laddove il film di Pasolini si occupa del potere nelle sue implicazioni più anarchiche, Ferreri, per sua stessa ammissione in un’intervista, realizza un’opera fisiologica, scevra di sentimenti, dove l’edonismo lascia spazio (appunto) alla fisicità in quanto realtà ultima; non è solo nel cibo che ravviso un vago parallelismo tra le due pellicole, ma in una più generale (e a mio parere comune) estetica con la quale l’uomo viene mostrato in quanto uomo, in quanto corporeità, in quanto finitudine. In ambo i casi credo che il registro stilistico sia simile, quello grottesco, ma differisca in intensità.
Ne La grande abbuffata è palese la disperazione borghese, la trasformazione del piacere in abitudine e quindi l’incapacità di ripetere a comando l’edonismo originario: la resa del corpo al corpo e una collettiva volontà di autodistruzione. Per scomodare Freud, così da destare in me risate verso un’altra parte di me rivolta alla cinefilia, mi sembra che nel lavoro di Ferreri si affermi la pulsione di morte con una gita stanziale e culinaria al di là del principio di piacere.
Girato perlopiù in interni e con un grande cast (i personaggi usano i loro veri nomi di battesimo), per me è un film che assolve il compito per il quale è stato concepito nelle intenzioni del regista, ovvero trascurare lo spettacolo per innescare un crudo meccanismo d’identificazione, perciò lo reputo efficace in questo senso e nullo (per i miei gusti) sotto il profilo dell’intrattenimento.
Devo fare mia la buona abitudine di rispondere alle sole chiamate oniriche: cosa può mai valere un incontro che non abbia prima avuto luogo in uno stato di coscienza diverso da quello vigile? Ogni tanto faccio squillare a vuoto dei contatti inesistenti nel buio di un sonno incipiente e per comporne il numero fantastico con il pensiero: non so come funzioni la segreteria e quindi affido i messaggi alle bottiglie di vetro affinché galleggino sopra gli altrui abissi.
Il linguaggio comune e i suoi mezzi hanno limiti evidenti. Preferisco intavolare un dialogo su una struttura metafisica piuttosto che quantizzarlo in pacchetti da un server all’altro come un flusso di dati, perciò lo scatto alla risposta dev’esserci con gli occhi chiusi e sulla scia delle onde alfa. Finora ho trovato sempre spento, insomma, l’utente non era raggiungibile, ma nulla mi vieta di sparare con la mia immaginazione dei segnali verso e oltre la volta celeste: è una pratica che si esaurisce in sé e questa sua aseità le conferisce il proprio senso. A volte uno scopo sussiste benché non ce ne sia uno e non si possa darne conto né descrizione. E se a un certo punto qualcuno rispondesse dall’altro capo del sogno? Ebbene, quella sarebbe l’occasione giusta per fare una pernacchia e agganciare la cornetta o la cornucopia. Forse qualcuno prova a chiamare me nello stesso modo testé descritto e trova la linea occupata, ma io spero che quest’ultima sia una di basso su cui improvvisare contrappunti. Forse in questa suggestione il mezzo conta più del fine e non è un veicolo o almeno non risulta esserlo più di quanto lo sia un taxi vuoto che si diriga verso l’Iperuranio per caricare l’idea di sé.