Si avvicina il giorno dei morti, però io mi sento vivo e un atteggiamento contrito non mi compete. Forse i primi freddi dell’autunno mi rinvigoriscono. Ancora una volta diagnostico a me stesso un umore benigno, difatti non c’è nulla in questo periodo che mi turbi. Sono certo che in futuro non mancheranno momenti nefasti e parossistici, echi perfetti di un passato talvolta ciclico, tuttavia è proprio in fasi serene come la presente che mi preparo all’impatto: così la calma prima della tempesta non è più un oggetto di contemplazione e assurge al ruolo di tacita maestra.
Mia madre mi ha detto senza cattiveria che io non riesco a cavare un ragno da un buco, però le ho fatto notare che un buco non l’ho mai trovato e così oltre a sdrammatizzare l’ho fatta ridere. Non mi preoccupo delle lodi e delle critiche perché entrambe mancano spesso di obiettività e, a seconda delle indoli, rischiano di provocare pericolose deviazioni verso la sopravvalutazione o l’autodenigrazione. Non scado nella misantropia perché pecca di precisione, perciò non avverso l’intera società di cui faccio parte e nella quale anch’io ho investito la mia quota di cattive azioni. Oltre a certe buone abitudini, sono la lucidità e il tentativo di essere il più imparziale possibile che mi salvano dalla pazzia.
Per me novembre si avvicina nel migliore dei modi, infatti ho risolto delle questioni e ho scelto di non aprirne delle altre che avrebbero potuto oberarmi d’impegni per i prossimi mesi. Anche sul fronte personale ho fatto delle scelte che trovo liberatorie. Anzitutto ho deciso di non viaggiare neanche il prossimo anno benché abbia la possibilità di farlo: non ne sento affatto l’esigenza e quindi ne approfitto per risparmiare. Ho completato il mio quinto libro: si tratta di un saggio che sottoporrò all’attenzione di qualche casa editrice. Non ho aspettative benché riconosca al breve scritto una potenzialità commerciale. Non so ancora invece quale destino riservare al mio quarto libro, Nuovo nichilismo solidale, però la notte riesco ugualmente ad assopirmi, infatti il mio futuro non ha nulla a che fare con quanto incastro tra i capoversi.
Io non mi identifico con quello che faccio. Conosco giornalisti di provincia che nella loro fantasia si vedono come dei cronisti d’assalto, però un articolo sull’apertura di un nuovo panificio è assai diverso da un’inchiesta che tocchi la ‘ndrangheta. Non sono uno scrittore e la padronanza della mia lingua madre non mi soddisfa, perciò posso considerarmi una capra che non rumina Pascoli. La sagacia è il pane degli annoiati. La conclusione del quinto libercolo mi permette di sentirmi vuoto nell’accezione migliore dell’aggettivo. Sono davvero sollevato.
Mercoledì mi sono recato a Bologna per godermi l’Heidenfest. Purtroppo sono giunto con un’ora di ritardo, di conseguenza mi sono perso l’apertura dei Krampus e una parte dell’esibizione dei Trollfest, ma tanto non m’importava granché né dei primi né dei secondi. Ho rivisto i Varg che avevo già avuto modo di apprezzare quattro anni prima al Paganfest e mi hanno convinto ancora una volta nonostante i loro dischi non mi facciano impazzire. Anche i Korpiklaani mi sono piaciuti parecchio e ho gradito il loro folk metal assai festoso, trascinato da parti di violino efficacissime. Quando sono saliti sul palco i Wintersun ho iniziato davvero a gasarmi e non so che elogi fare a questi finlandesi senza cadere nella banalità. Il nuovo album a mio avviso supera il primo, quel debutto omonimo uscito ormai otto anni fa, ma durante il live non ho sentito manco un attimo di calo e ho assistito ad un continuo susseguirsi di pezzi epici che m’hanno trascinato. Non ho potuto filmare Jari e soci perché mi trovavo in prima fila, attaccato alla transenna, perciò troppo vicino al palco per eludere una registrazione eccessivamente distorta: in compenso ho preso qualche ricordino filmato dei Varg (ottimi organizzatori di moshpit) e dei Korpiklaani.
Mi sono goduto un gran bel concerto, in un’ottima atmosfera, con un pubblico partecipe e gruppi validi: ancora una volta posso affermare che è valsa la pena di fare quasi settecento chilometri.
Sabato sera sono andato a mangiare un calzone senza prosciutto cotto in un’ottima pizzeria. Dopo mezz’ora dal mio arrivo un gruppo di statunitensi si è accomodato ad un tavolo vicino e io sono stato ipnotizzato dalla yankee più giovane, probabilmente la figlia di una delle due coppie che facevano parte della compagnia anglofona. Ho riconosciuto quasi subito l’accento di quegli avventori e con altrettanta celerità l’aspetto e la voce della bionda suddetta m’hanno rapito. A più riprese ho scambiato delle occhiate fugaci con costei, ma devo ammettere di non essere riuscito a sostenere il suo sguardo abbastanza a lungo per stabilire un ponte radio.
Più i minuti passavano e più cresceva in me il desiderio di conoscere quella ragazza, però non avevo idea di come rompere il ghiaccio. Per introdurmi avrei potuto domandare l’intenzione di voto a lei e ai suoi commensali, ma se mi avessero detto di appoggiare Romney probabilmente non sarei nemmeno riuscito a finire lo squisito calzone senza prosciutto cotto che nel frattempo mi era stato portato. La situazione non mi ha permesso alcun tipo di approccio e quando me ne sono dovuto andare l’ho fatto a malincuore. Non so che tipo di persona si celasse dentro quella statunitense, però mi sarebbe piaciuto scoprirlo in una conversazione lunghissima. Per me sono rare le intuizioni di questo tipo e non riesco mai ad approfondirne una. Forse ho un debole per le anglosassoni dato che, in ordine di tempo, la penultima sensazione di questo tipo l’ho avuta più di un anno e mezzo fa a Kyoto al cospetto di una meravigliosa australiana. Ah, il caso!
Mi trovo in una notte incantevole, coi pensieri tutt’intorno al fuoco sacro della mia forma mentis. Sfoglio piano il libro dei morti per trovare una piega da dedicare a qualche agonizzante di mia conoscenza. Stride il mio distacco austero dinanzi ad un alito di vita sempre più fievole, tuttavia per me la pietà non è un premio alla carriera.
Non m’interessa ricavare la vanagloria di un’inutile coerenza, bensì ho cura di mantenere intatta la mia spontaneità mentre un corpo avanza verso una decomposizione inevitabile. Seggo sullo scranno di un’età giovane e mi pare di tenere il mondo in pugno proprio come taluni un tempo stringevano il globo crucigero, ma anch’io prima o poi dovrò abdicare e ho la sensazione che in parte la scrittura sia propedeutica per l’avvicinamento alla dimenticanza cinerea alla quale sono destinato. Il mio entusiasmo per la vita passa attraverso la certezza della fine e vado in estasi quando riesco a trattenere in profondità questa concezione, ma qualche volta mi distraggo e fatico ad avvalermi d’un approccio così ameno. Danzano Eros e Thanatos, ora vicini, ora lontani. Qua soltanto le apparenze sono macabre, però servono anch’esse per esorcizzare il timore e la tradizione cristiana che lo alimenta. Non sono proprio in grado di descrivere i moti d’entusiasmo che talvolta ribollono in me, ma dimostro la stessa incapacità nel tentativo di coniugare queste parole con ciò che dovrebbero sostenere. La morte di cui vaneggio non è quella d’inedia che si abbatte quotidianamente nel mondo, non è manco quella elargita dai signori della guerra né il risultato di sfruttamenti d’ogni genere, ma si tratta di una fine più dolce nei modi e altrettanto categorica nell’esito. Sono consapevole del duplice privilegio che il caso mi ha concesso, ovvero quello di contemplare la morte con calma e di potermici preparare, perlomeno in qualche misura. Non ho alcuna fretta di defungere, però mi piace pensarci perché mi rallegra.
Vorrei tanto che il mio primo appuntamento con una ragazza avesse luogo in un cimitero, tra le tombe e il silenzio: io lo troverei di un romanticismo infinito, specialmente con una femme fatale.
La mia esistenza è sottoposta a dei cicli ed è per questa ragione che a intervalli regolari tendo a imbevere le parole nella ridondanza, ma tali ripetizioni costituiscono anche una prova pedante e monotona della coerenza che fa da sostrato alle fasi suddette.
Mi trovo in luna crescente, come per altro attesta il colorito latteo che non abbandono neanche l’estate. In questo periodo oscillo tra un umore neutro e un po’ di entusiasmo: metterei la firma al cospetto di qualunque vicario di Lucifero per mantenere lo status quo, ma sfortunatamente un servizio del genere non è previsto dalla compagnia assicuratrice che al momento mi succhia il sangue. In realtà sono perfettamente conscio dei turbamenti che prima o poi si abbatteranno sulla presente quiete, d’altronde conosco bene la calma foriera di tempesta, però sono altresì certo che saprò far fronte ai fastidi futuri senza concitazione. Mi sento nel pieno possesso delle facoltà d’intendere e volere, imperniato su una lucidità estrema, tuttavia resto carente a livello affettivo e non ho proprio idea di come colmare questa lacuna. Immagino che prima o poi avrò la possibilità di vagliare le occasioni che il caso mi sottoporrà, ma io farei già un passo avanti se mi sbarazzassi dell’ampollosità con cui talvolta mi faccio scudo, un po’ come in questo appunto.
Dovrei crearmi un futuro io che non vivo nel passato e salto a piè pari sul presente: sono senza fissa dimora nel tempo. Accenderei un cero alla Madonna se prima mi fosse dato di cospargere cherosene tutt’intorno. Non sono un piromane né un indigente, perciò non ho a disposizione né il fuoco sacro né la rabbia sociale. Mi assolvo e porto i giudici a bere qualcosa, ma non c’è nulla che m’ispiri nelle sostanze alcoliche e dunque non mi resta che attendere la loro ubriacatura per accennare risate di circostanza: mi piace tanto la granita alla menta, anche a gennaio.
Mia madre è preoccupata e vorrebbe che circuissi qualche coetanea, però io non credo molto ai facili e sporadici entusiasmi di cui ogni tanto sono oggetto: faccio il toy boy per le fantasticherie passeggere di nubili addolorate. La verginità non mi pesa e anzi, non trovo un contrappeso che mi convinca a rimuoverla dal curriculum vitae. Tutti la sanno più lunga di tutti: ecco come si fa la scaletta per andare a fare in culo. Sono in giacenza e non mi aspetto che qualcuno mi ritiri, men che meno il sottoscritto: never back down. Noto troppo affanno per fanfaluche e fanfaroni: io mi defilo e calcio via la matassa. Mi sfugge la differenza sostanziale tra l’inseguimento della lepre e la lepre in quanto fuggiasca. Al traguardo mando il sosia e gli cedo tutti gli onori. Ho baci nuovi di zecca, mai usati, parole intonse, roba che non si trova dai rigattieri né dai puttanieri redenti. Non mi ci vuole nulla a segnarmi un bersaglio sul miocardio, tuttavia sono le tiratrici che latitano ancor prima dello sparo: contumacia preventiva. Il verbo non mi spaventa, però quello con la vu maiuscola mi fa ridere di gusto: m’immagino Cristo che moltiplica cazzi. Ah il turpiloquio, tuttavia concedo spazio anche a sprazzi di sentimento e la dimostrazione è qualche riga sopra, come i panni stesi in un condominio: all’ultimo piano c’è sempre qualcuno che progetta il cedimento delle fondamenta. Se avessi una specialità mi farei valere nei suoi confini, ma brillo lo stesso in lontananza e non pretendo di attirare telescopi né occhiali: emano luce fine a se stessa.
Naufragar m’è dolce in questo letame
Pubblicato mercoledì 10 Ottobre 2012 alle 01:31 da FrancescoL’eutanasia dovrebbe essere un diritto per tutti. Se fossi un malato terminale rifiuterei ogni tipo di accanimento terapeutico e cercherei una morte dolce. In Italia non c’è la libertà di disporre del proprio corpo perché il Vaticano vuole imporre anche ai non credenti i suoi precetti deliranti. Queste ingerenze sono i capisaldi di una teocrazia invisibile che cagiona inutili sofferenze e crea corsie preferenziali per coloro che possono permettersi un viaggio di sola andata all’estero.
Non sono un cattolico e non voglio avere niente a che fare con la religione di merda che inquina la mia nazione, ma l’avverso perché s’impone attraverso degli alfieri politici, ovvero puttanelle al soldo di alti prelati. Il cattolicesimo è intriso di fanatismo, ma se fosse un culto privato a me non recherebbe fastidio alcuno. Se un domani io dovessi ammalarmi gravemente la mia volontà non verrebbe tutelata e sarei costretto a sottostare a quello che de facto è un divieto ecclesiastico. Forse il dio inteso da Nietzsche è morto, ma evidentemente occorre fare scempio del cadavere affinché non ne rimanga più traccia.
Altre volte ho accennato l’argomento, ma negli ultimi giorni sono tornato a ripensarci perché ho visto uno spot geniale a favore dell’eutanasia in cui s’invitano i malati terminali a farsi vivi per prenderne parte. Qualcuno ha trovato tale iniziativa di cattivo gusto, ma penso che difficilmente una campagna del genere avrebbe potuto trovare un’impostazione migliore: da parte mia tanto di cappello! La vita non appartiene a nessuna divinità del cazzo ed è disumano sacrificare la dignità di certi malati per contentare un branco di dementi. Un cattolico deve restare libero di soffrire quanto e come vuole, allo stesso modo in cui riconosco il diritto dei Testimoni di Geova a rifiutare le trasfusioni di sangue, ma parimenti la mia volontà deve essere rispettata in pieno. Tutto questo discorso gronda banalità in quanto è formato da auspici che dovrebbero essere già conquiste datate, ma credo che ormai sia soltanto una questione di tempo e spero di vivere abbastanza per usufruirne sul punto di morte qualora dovessi giungervi con un male oscuro.
A me non interessano i piani pensionistici né le prospettive di crescita economica, tuttavia non mostro disprezzo per scadere in un anticonformismo banale né tanto meno per darmi un tono. Io vorrei avvicinarmi davvero a quella mentalità che permette di accogliere la morte in qualsiasi momento, senza l’ausilio di ciarle roboanti che hanno il solo scopo d’intonare una virilità stantia. Per me questo è un tema ricorrente poiché lo considero un punto di svolta per la mia esistenza e al tempo stesso un obiettivo irraggiungibile. Non so proprio come spiegarmi senza prestare il fianco all’approssimazione. La cultura cristiana non facilita il raggiungimento di questo obiettivo perché infonde una parvenza d’eternità nella percezione del tempo anche in alcuni di coloro che fanno professione d’ateismo: questa è una delle tante colpe che imputo alla fede monoteistica di cui sopra. Per me il culto della morte non deve essere contrapposto alla vita né tanto meno deve ridursi ad un’autodistruzione che usurpi il buon nome del nichilismo, bensì lo considero un modo per comprendere la propria finitezza. Io devo morire. Il mio cuore smetterà di battere, il mio ricordo sarà spazzato via e prima o poi la stessa fine toccherà al sistema solare nel quale ho avuto il privilegio di vivere per quello che è un battito di ciglia nei tempi dell’universo.
Queste parole restano banalità a meno che non producano un minimo livello d’inquietudine in grado di certificare il loro impatto sulle profondità di chi le verga e di chi le legge. Con tutto ciò io non intendo disinnescare qualunque anelito, ma rafforzarlo in favore di quella clemenza cosmica che è la fine. A me spaventerebbe l’idea di vivere per sempre. Rinuncerei all’immortalità anche se la prossima finanziaria la prevedesse per tutti i cittadini maggiorenni: tutt’al più mi potrebbe andare bene una proroga di qualche secolo per mera curiosità, ma poi saluterei tutti e mi ritirerei nel nulla senza più abiti né carne.
Alla fine di questo appunto mi rendo conto che non riesco neanche a scalfire il muro che separa la mia capacità di esprimermi dal concetto che io cerco d’illustrare senza successo, come se quest’ultimo fosse ineffabile: non so se lo sia davvero o se sia la mia mediocrità a renderlo tale.
In testa non porto turbamenti né turbanti. Attraverso un periodo neutro, ma non si tratta di un appiattimento emotivo. La calma della mia vita interiore può essere confusa col disinteresse, ma in realtà è una grazia periodica che si presenta ogniqualvolta i miei desideri risultino sfitti.
Non ho un nome da caldeggiare nottetempo. Attorno a me noto molti comportamenti meccanici e anch’io talvolta ne assumo qualcuno a mia insaputa, però faccio il possibile per non entrare in tali ingranaggi. Mi riferisco a questioni prettamente affettive giacché scadrei in una ottusità fuori misura se prendessi in esame qualcosa di meno privato. Talvolta mi sento come un cane che tenta invano di mordere la propria coda quando invece vorrebbe scodinzolarla per un buon motivo. Faccio da mediatore tra i miei slanci naturali e la mia interpretazione della realtà, però non sono ancora riuscito a trovare un punto d’incontro, in senso lato. Spesso avverto troppo pressappochismo nell’aria. Ho la pressione bassa e il morale alto: la prima non mi dà problemi e il secondo mi restaura la quotidianità. Ho circa quarantaquattro pulsazioni al minuto: un cuore da atleta, ma forse non da spasimante. Il passaggio del tempo mi acquieta. Non sto sulle mie e non giro coi trampoli, ma evito le forzature per motivi di lungimiranza. Non mi preoccupo affatto dei fraintendimenti poiché il loro scavalcamento per me costituisce la precondizione di qualsiasi tipo di conoscenza: in altre parole si tratta di una prima scrematura che posso delegare al caso.