Con un segno di comando ristabilisco un punto d’equilibrio. Non v’è in me prossimità alcuna: non so più dove mettere la distanza e per questa ragione spero che un piccolo demiurgo mi subaffitti un altro universo. Assisto agli altrui crolli, prendo atto di scomparse repentine e odo le sterili rimostranze di chi prova a rispondere agli insulti del tempo: tutta fatica sprecata, talora come la vita stessa. Scrivo in questa mia lingua madre nell’epoca corrente, un futuro passato di cui forse resteranno vestigia digitali. Rubo l’infinitesima parte di un istante perché la mia destrezza non mi consente nulla di più, ma già questo piccolo furto per me è un esproprio giustificato e lo faccio rifulgere nell’oblio venturo di cui i silenzi tombali sono discreti ambasciatori. La vita prima della vita, la vita dopo la morte, la morte prima della vita: mi vengono in mente i regoli delle scuole elementari.
Mi perdo in cose così grandi perché non ne colgo di piccole o forse valorizzo le seconde sulle ali delle prime. Non ho mai pensato di prendere una laurea, però ricerco dentro di me una figura che abbia esperienze extracorporee: voglio fare l’addetto alle risorse metafisiche. Quando dormo provo a fare altro, ovvero tento di mandare messaggi onirici e di viaggiare sfruttando la natura non locale di una realtà diversa, dove la fisica classica non ha giurisdizione, ma non so se qualcosa di tutto questo mi riesca poiché non ne serbo mai memoria: forse sarebbe opportuno che prendessi sono con taccuino e matita. Sono un habitué del digiuno intermittente, perciò se fossi stato un apostolo avrei disertato l’Ultima Cena, ma anche se vi avessi preso parte mi sarei limitato al pane azzimo: l’agnello e il vino giammai.
Nel risveglio e nel sonno (o viceversa)
Pubblicato mercoledì 26 Marzo 2025 alle 19:48 da FrancescoNon amo i visi lunghi nel duplice significato dell’espressione e anche a quest’ultima mi riferisco nella sua doppia accezione, ovvero quella facciale e di veicolo semantico. Cosa resta dei giorni che furono? Forse le macerie che uno vuole farne a seconda della propria indole: è una sorta di arredamento per terremotati. Guardo dentro di me e fuori di me, però non mi capita mai di sbirciare attraverso il buco della serratura come insegna qualche vecchio b-movie e poi, anche se volessi farlo non ne avrei modo, difatti trovo soltanto porte aperte che aggettano su stanze vuote. Le chiavi posso fonderle insieme per farne un’unica cosa inutile o, in alternativa, posso nasconderle sotto il tappeto insieme alla polvere di stelle.
C’è qualcosa di bello e trascurabile nell’alba di cui talora sono il giovane o tardo testimone (dipende dai ritmi circadiani). Sovente scendo dal letto col piede giusto e forse l’altro si adegua al socio per non creare conflitti, però suppongo che i due si agiterebbero e finirebbero per venire alle mani se io provassi a ballare il flamenco. I più si muovono a tempo della danza macabra e io stesso lo faccio, ma esistono anche altri ritmi e figure diverse, forse persino più fatali: l’oltretomba lo immagino come una serata latinoamericana e per questa ragione, una volta dismesso il mio attuale corpo, spero di recarmi altrove. Ogni tanto mi chiedo cosa succeda a milioni di anni luce di distanza dal punto in cui mi trovo. Vi sono grandezze e realtà di cui la mia immaginazione non può fabbricare neanche la parvenza di un accenno.
Mi avvalgo della facoltà di respirare, ma secondo i crismi del pranayama. Non ho le farfalle nello stomaco e di norma preferisco che gli insetti volino in aperta campagna o nei giardini in fiore: il mio non è un atto discriminatorio. In passato ho sperato che certe premesse superassero il loro status, ma il loro unico sorpasso è avvenuto contromano in un frontale con la realtà dei fatti. Sono in grado di leggere una fine annunciata negli altrui entusiasmi, come se d’un film potessi indovinare l’epilogo dal suo titolo. Io doppio soltanto me stesso, anche perché altro non m’è dato fare.
Vivo negli spazi adiacenti al presente perché in questo periodo ho la sensazione che i miei giorni superino i limiti di velocità, ma non ho prove certe per inchiodare le ore a una staticità a cui, in ogni caso, nulla né nessuno può relegarle. Non colonizzo l’altrui attenzione e mi limito a regnare nel mio orticello, dove comodo sedo su un torno di sedani. Coltivo ortaggi e passioni solipsistiche perché non è male far di necessità virtù e poi, fatto trenta, far trentuno vien da sé, in particolare nell’atto di unire l’utile al dilettevole.
Le occasioni perse si sono perse da sole e non hanno avuto l’accortezza di lasciare molliche lungo il cammino: forse il loro destino era nel food delivery. Sarà il momento o il tenore di queste parole, però mi torna in mente un passaggio di “This must be the place”, film di Paolo Sorrentino, nel quale il protagonista dice: “Lo sai qual è il vero problema, Rachel? Passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice ‘un giorno farò cosi…’ all’età in cui si dice ‘è andata così…'”.
Preferisco un sano pragmatismo alla maggior parte di convinzioni ideologiche, dunque non è per l’astratto concetto di pace se credo che il piano di riarmo europeo sia il frutto avvelenato di menti malate. A suo tempo la Grecia, la quale aveva certamente delle colpe, non ricevette subito l’aiuto necessario per sostenere le proprie finanze e fu costretta a misure draconiane da un piano di rientro che si tradusse in macelleria sociale: all’epoca, nelle stime più pessimiste, sarebbe bastato un prestito pari a un terzo della cifra oggi prospettata per i futuri armamenti.
I maggiori partiti italiani hanno sostenuto il riarmo seppur in misura diversa, tuttavia questa larga convergenza dimostra come votare non serva a una sega giacché, in un sistema rappresentativo, le idiozie sfiorano spesso l’unanimità: questo, insieme alla pigrizia, è uno dei motivi per cui non mi reco a un seggio elettorale da dodici anni. Per mia fortuna non ho né voglio figli e quindi, in una certa misura, posso sbattermene le palle di tutto ciò. Mi diverte come la propaganda europea sia pari a quella russa, né più né meno: ognuno tira l’acqua al proprio mulino, a costo di affogarcisi.
Io non combatterei mai la guerra di altri e se ci fosse la coscrizione diventerei un disertore. Potrei ammazzare qualcuno se fossi costretto a difendermi, ma non andrei mai a sparare contro degli sconosciuti per onorare una bandierina o il nome su una carta geografica.
Secondo me certi slanci novecenteschi sono oggi anacronistici. In larga parte non esistono più le patrie, ma soltanto nazioni che sono gestite come aziende, luoghi dall’identità in caduta libera in cui la retorica del passato non può attecchire come succedeva una volta: è nell’ordine delle cose poiché le cose stesse mutano e nulla resta statico.
In ogni caso all’amor patrio preferirò sempre l’amor proprio.
Muovo verso le idi di marzo senza una ragione valida per chiamarle tali. Certi miei risvegli sono arricchiti dalla netta sensazione dell’avanguardia primaverile. Non sono il figlio di una stagione prediletta né io ne ho mai adottata una, ma certi anni ne preferisco alcune ad altre. Gli eventi si portano da casa le parole per descrivere sé stessi, come se dovessero fare un pranzo al sacco o un’ultima cena, perciò non occorre che io faccia servizio al tavolo od offici una messa di suffragio. Il nome delle cose non sostituisce le cose stesse e sovente neanche le indica.
Sono in procinto di concludere certe attività e d’iniziarne altre, tutte autoreferenziali come al solito, ma il termine delle une e il battesimo delle altre non hanno la simmetria di un cerchio perfetto: quest’ultima la trovo a prescindere da quanto si compia o sia ancora incompiuto. Pare che gli esami non finiscano mai, ma anche i lavori sono sempre in corso, specialmente quando s’intendano nel senso della fisica classica.
Le singole realizzazioni sono epifenomeni e hanno nessi causali che io non pongo a fondamento di alcunché. Ciò che accade, accade e non potrebbe essere altrimenti: da una certa prospettiva tutto può apparire pleonastico. Non lascio dietro di me briciole fataliste, inoltre, anche se tutto fosse già scritto, mancherebbe sempre una piena adesione al testo. I defunti interpretano alla lettera la lettera morta. Talvolta alle circostanze manca una creanza che non è loro propria, perciò possono presentarsi senza che nulla e nessuno le annunci, all’insaputa delle precauzioni di rito e clandestine rispetto a ogni calcolo. Non si può controllare tutto e questo lo sa bene chiunque sia partito con una flatulenza e l’abbia vista liquefarsi in diarrea. La materia è materia e la merda non è da meno.