17
Feb

I meccanismi di difesa di Robert B. White e Robert M. Gilliland

Pubblicato giovedì 17 Febbraio 2022 alle 22:45 da Francesco

Ho colto la lettura de “I meccanismi di difesa”, scritto a quattro mani da White e Gilliland, come un’occasione per passare in rassegna e approfondire dei concetti di cui ero già edotto, non ultimo quello di “permanenza oggettuale”, ovvero la capacità della quale i bambini sono sprovvisti fino ai diciotto mesi e la cui mancanza induce essi ad attribuire un’esistenza solo a quanto rientri nel loro campo visivo. Un altro punto capitale in apertura del testo riguarda la distinzione tra paura e angoscia con le loro differenti implicazioni, laddove la prima riguardi un pericolo concreto mentre la seconda abbia ragioni indefinite e una natura endogena.
Dopo queste e altre premesse nelle pagine si susseguono disamine ed esempi per tredici meccanismi di difesa di cui la rimozione figura come quello principale, difatti opera per escludere dalla coscienza un impulso insopportabile e il suo relativo ricordo, ma il materiale escluso (e anche questa nozione compone la parte introduttiva del libro) non ne decreta né ne riduce la portata, bensì lo tiene sotto custodia come se fosse un carcerato; a corredo di ciò aggiungo una celebre citazione di Freud che secondo me in una certa misura rimarca il concetto: “Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore”.
Oltre alla rimozione le forme di difesa sono la conversione, l’inibizione, lo spostamento, il diniego, la razionalizzazione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento dell’affetto, la regressione, la proiezione, il rivolgimento contro il Sé e la dissociazione: di queste tredici ve ne sono due (razionalizzazione e diniego) che fanno parte anche delle cosiddette cinque fasi del lutto, ma si tratta di una mia libera associazione più o meno corretta di cui il testo non fa menzione. Non è un volume corposo, consta di appena duecento pagine, ma tanto denso quanto utile per chi sia digiuno di tali nozioni e voglia meglio comprendere sé e gli umanoidi.

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16
Feb

Gli yogin del Ladakh e Odio, rabbia, violenza e narcisismo

Pubblicato martedì 16 Febbraio 2021 alle 20:30 da Francesco

Le mie ultime letture in ordine cronologico attengono ancora una volta alla saggistica, campo dal quale ormai fuoriesco di rado. Odio, rabbia, violenza e narcisismo è un testo brevissimo, non raggiunge neanche le cento pagine, però è molto denso ed è rivolto a chi abbia già un po’ di confidenza con le tematiche psicoanalitiche. Io non vi ho appreso nulla di nuovo, ma al suo interno ho trovato utile il breve riepilogo delle moderne teorie degli istinti e delle emozioni con l’accostamento allo storico approccio freudiano, tutto volto a particolareggiare gli sviluppi delle prime: interessanti ed esplicativi i casi clinici di esempio. Il tratto preminente di queste pagine a me è sembrato quello della relazione oggettuale, tanto come terreno d’indagine quanto strumento terapeutico a mezzo transfert. Ottima l’esposizione di Otto F. Kernberg. Ormai gli impianti teorici della disciplina mi sono noti da anni, perlomeno nei loro termini essenziali, perciò in futuro proverò a cercare delle opere che pongano maggiormente l’accento sui casi clinici.
L’altro testo in esame l’ho affrontato sul mio fido Kindle 4 (quasi dieci anni d’onorata carriera, con buona pace del consumismo sfrenato) e l’ho scelto per due ragioni: un interesse metafisico e la curiosità verso quei territori nei quali, almeno in parte, già Hopkirk mi aveva condotto tramite un paio di suoi saggi storici, ossia Diavoli stranieri sulla via della seta e Il grande gioco.
Gli yogin del Ladakh è al contempo un resoconto della dimora delle nevi dal punto di vista paesaggistico ed etnico, ma consta anche di molteplici disquisizioni su certe tecniche di meditazione e sul concetto stesso di Dharma, oltre alle divergenze dei vari indirizzi dottrinali, tra l’altro a opera di due uomini (James Low e James Crook) che già erano adusi a determinate pratiche e le cui esposizioni nel testo mi hanno trasmesso la loro esigenza di approfondire le rispettive vie.
Ho trovato un po’ complicato ricavare una visione d’insieme delle scuole e dei lignaggi, perciò la lettura di alcune parti l’ho integrata con delle ricerche sul web. Un passaggio del testo sembra giustificare la moltitudine delle varie tecniche in quanto afferma che esse sono espedienti per persone con diverse capacità e realizzazioni. A livello meramente semantico ho chiarito a me stesso vari termini, tra i quali i titoli di “rinpoche“, “lama” e “geshe“, mentre sotto il profilo storico ho scoperto la figura di Machig Labdron, di cui non sapevo nulla, e la severità di Marpa verso Milarepa che spinse più volte il secondo sull’orlo del suicidio; interessante anche l’aspetto aneddotico che riguarda i personaggi coevi delle peregrinazioni descritte, quindi a metà degli anni ottanta del secolo breve: squarci d’un vivere dove il tempo s’era arrestato da secoli. Una menzione va a Tenzin Palmo, la quale è citata di sfuggita perché nel suo nome s’imbattono Low e Crook mentre lei è in ritiro da anni in una caverna: si tratta di una donna inglese fattasi monaca (bhiksuni) che in seguito sarà costretta a lasciare l’Asia per problemi di visto e finirà in Italia, ad Assisi: quest’ultima circostanza l’ho appurata con una mia ricerca personale.
È un libro che oscilla tra il sacro e il profano, dove al primo è ascritta una ricerca spirituale e al secondo le prosaiche avversità di cui ogni viaggio incerto sa essere prodigo, ma a mio parere questa natura ibrida giova al ritmo dello scritto. Gradito e utile è anche il testo di Padma Karpo su cui gli autori si soffermano verso la fine dell’opera.

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12
Set

Archivio onirico: sogno n. 14 e sogno n. 15

Pubblicato venerdì 12 Settembre 2014 alle 14:41 da Francesco

Questo periodo funesto ha ridestato in me un’intensa attività onirica e il mio inconscio è tornato raccontarmi quello che ci accomuna. Ho faticato un po’ ad annotare questi sogni perché non mi andava di farlo, ma alla fine mi sono reso conto della loro importanza per le mie ricerche e qui di seguito ne ho riportato ciò che ho potuto.

Sogno n. 14

Mi trovo in un istituto di cui salgo e scendo i piani. La struttura mi ricorda quella delle mie scuole medie. C’è una grande confusione e sembra che sia l’ultimo giorno prima delle vacanze.
Il sogno poi passa dentro un aereo. Sono in fondo al corridoio, quasi in coda, tutti i posti sono vuoti e all’improvviso lo vedo inclinarsi: l’aereo precipita e mi sveglio di colpo prima dell’impatto.

Sogno n. 15
 

Cammino lungo una serie di tornanti che assomigliano a quelli di un posto in cui ogni tanto vado ad allenarmi. Ad un certo punto inizio a costeggiare una parete bianchissima e raggiungo una serie di case che mi ricordano Cadaques, un paesino spagnolo in cui ha dimorato Salvador Dalì. A quel punto il sogno cambia e mi proietta in mezzo a degli studenti rispetto ai quali ho almeno dieci anni di più. Uno di loro si sorprende perché mangio dello sgombro da una scatoletta e ne levo le spine senza usare le mani: gli porgo una scatoletta e lui prova a fare altrettanto, ma si dimostra un po’ goffo. Dopo un po’ mi ritrovo in viaggio con un bambino. Mi sorge il dubbio se viaggiamo con gli altri o se siamo stipati in una specie di bagagliaio: alla fine si rivela esatta quest’ultima ipotesi e finiamo sul fondale di un porto, di conseguenza non ad una profondità eccessiva, circostanza che mi consola già nel sogno perché so che potrò risalire. Apro il portellone a calci e cerco di compensare bene per tornare in superficie senza farmi male. Anche l’altro si salverà.
In seguito io e il bambino ci sediamo ad un tavolo con i turisti che viaggiavano insieme a noi ma uno di loro si è accomodato su una sedia che a sua volta poggia sul tavolo: è girato di spalle.

La parte iniziale del primo sogno è quasi ricorrente, poiché ogni tanto la mia attività onirica mi riconduce ai tempi della scuola. In questo caso credo che il clima da ultimo giorno indichi sollievo per il fatto che la mia potenziale relazione sia giunta ad una svolta: continuare o smettere.
Infatti, quando i miei sogni si svolgono nell’ambito scolastico vengo appagato dal fatto che non devo più andarci e dunque è facile il parallelismo tra un rapporto e lo studio: deve procedere o deve terminare? Quando il sogno si è verificato il mio legame embrionale era già scomparso e ne deduco che ciò evidenzi il piacere di non essere più in una sorta di limbo: mera consolazione.
Vedo nell’aereo vuoto che precipita tutta la solitudine con cui tento di stare troppo in alto, come se cercassi di vivere una vita al di sopra delle passioni senza esserne capace; puntualmente dei rari e fallimentari entusiasmi mi ricordano la mia vera natura. A questo proposito associo un passaggio dello Zarathustra di Nietzsche in cui viene detto più o meno: “Tu ti sei lanciato da te stesso così in alto; ma ogni pietra lanciata deve cadere”.

L’esordio del secondo sogno mi riporta ad un senso di smarrimento e impotenza che poggia su un fatto recente: qualche settimana fa la batteria della mia auto si è scaricata proprio nei pressi del posto che paragono a quello del sogno e quest’ultimo mi sembra che assuma il valore di un luogo di transizione, proprio come chiamo il periodo che sto attraversando.
Il riferimento a Cadaques suppongo che trovi spazio per due motivi. In primis, poiché il paesino spagnolo mi ricorda una zona di Porto Santo Stefano dove si trova la strada panoramica che associo alle scene iniziali del sogno; in secondo luogo suppongo che la mia tendenza a definire “surreali” quei giorni di tristezza e le relative sensazioni abbia contribuito all’inserimento del paese: Dalì infatti è il padre del surrealismo e il ricordo della sua casa, per cui Cadaques è così famosa, è ancora impresso in me.
La parte in cui mangio sgombro in scatola è un po’ criptica, ma io la interpreto come l’inefficacia frustrante delle mie buone intenzioni, infatti porgo la scatola all’altro dopo avergli mostrato che riesco a levare le spine senza usare le mani, quindi solo con i movimenti della bocca: questo esemplifica l’impotenza della parola, la pochezza del verbo e tutti i fraintendimenti.
Il fatto che io viaggi con studenti rispetto ai quali ho almeno dieci anni di più è un’inversione del sogno: infatti nella realtà è la ragazza che m’interessava ad avere dieci anni più di me. Questa inversione trova conferma anche dopo; il bambino rappresenta quella stessa ragazza e il fatto che anche lui si salvi significa quanto segue: entrambi siamo caduti ed entrambi torneremo in superficie poiché non abbiamo approfondito troppo il nostro legame, o, come io le ho detto in più occasioni vìs-a-vìs: non ci siamo concessi il lusso di conoscerci. In questo passaggio trovo la conferma di come l’attività onirica proceda talora per contrari e paradossi.
La specie di bagagliaio in cui viaggiamo rappresenta la situazione un po’ opprimente e carica di paletti nella quale io e lei abbiamo stabilito un dialogo. Il finale del sogno indica un ritorno alla normalità che per qualche giorno è sembrata in procinto di subire una grossa rivoluzione.
Manca da indicare cosa rappresenti il tizio che sta di spalle su una sedia, la quale poggia sopra il tavolo a cui siedono normalmente tutti gli altri: è l’indifferenza che domina la vita e come tale non ha connotati poiché li nega tutti.

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26
Set

Ipertrofia junghiana

Pubblicato mercoledì 26 Settembre 2012 alle 09:44 da Francesco

È un po’ di tempo che ho tra le mani “Il mito dell’analisi” di James Hillman, un libro nel quale la psicologia del profondo viene messa in discussione. Vi sono critiche al linguaggio psicologico e al modus operandi dei terapeuti, ma questo allievo di Jung (a cui egli fa spesso riferimento) non si limita a contestare l’analisi e ne propone una lettura archetipica per opporsi al primato della razionalità. La mia esperienza mi obbliga a riconoscere l’importanza della mitologia e dei simboli nel mondo interiore, ma, pur consapevole di tutti i suoi limiti, prediligo l’approccio più scientifico e illuminista di Freud che Hillman contesta apertamente.
La psicologia del profondo è per sua stessa natura indefinita, maculata di zone d’ombra, perciò guardo con circospezione tutto ciò che possa confonderne ulteriormente le acque. Non mi piace uscire dai ridotti confini dello scibile a meno che non si tratti di una gita fuoriporta nei dintorni del mondo onirico o della fabulazione. Non mi appartiene alcuna spiritualità, però al contempo non mi reputo né un materialista né tanto meno lascio una porticina aperta con l’agnosticismo. Mi guardo bene da usare un termine come “anima” in luogo di “psiche” perché ho l’impressione che possa prestarsi ad ambiguità svianti, talvolta persino volute. La preminenza del mito non mi convince e trovo parimenti limitativa la scientifizzazione della psiche, ma credo che quest’ultimo approccio abbia ampi margini di miglioramento con il progresso delle neuroscienze. Purtroppo è pressoché impossibile trarre conclusioni definitive in un processo che è in continuo divenire e di conseguenza non c’è modo d’imbrigliare l’epistemologia. Io ho riscontrato più volte il concetto di inconscio collettivo che Jung propone nella psicologia analitica, credo inoltre che non sia difficile trovarne conferma qualora si abbia la possibilità di entrare in contatto con culture diverse dalla propria, ma non riesco a reputare il ruolo degli archetipi più importante di quanto già lo ritenga. Non porto l’organicismo sul palmo della mano perché è assodata l’efficacia di approcci antitetici a quest’ultimo (altrimenti non mi sarei mai interessato alla psicodinamica). Mi domando se la mia ritrosia ad accogliere pienamente l’interpretazione archetipica dipenda dalla mia avversione per ogni pantheon o se, invece, scaturisca da un moto verso quell’obiettività a cui tendo senza però mai illudermi di poterla raggiungere. Per me non è un problema stracciare le convinzioni, infatti queste sono quasi sempre valide per intervalli di tempo ristretti nonostante in proporzione alla durata della vita umana sembrino sfiorare l’eternità: io non mi faccio stregare dalle clessidre. Hillman non mi convince e mi pare che a tratti scada nella sterilità della teologia, però la lettura del suo libro non mi tedia e anzi, mi dà modo di pormi qualche dubbio.
Ho dato una scorsa ad un approfondimento generale del suo pensiero e mi è rimasto impresso un punto in cui la cultura italiana è chiamata in causa. Egli domanda per quale ragione i suoi colleghi italiani cerchino la psicologia al di fuori della loro tradizione quando le loro psiche sono legate al Rinascimento su cui ancor oggi vive tutta l’Europa. Dal punto di vista di Hillman ciò non fa una piega in quanto egli dà un valoro assoluto alla cultura classica che nell’epoca suddetta fu riscoperta, ma potrei obiettare che forse quei mitologemi avevano bisogno di altri interpreti per essere riproposti in chiave moderna, ovvero di qualcuno che fosse estraneo a quella tradizione. Per me quest’ultima questione è una faccenda di mero colore, ma la trovo simpatica. C’è invece una citazione di Hillman che ha catturato la mia attenzione sebbene non riguardi direttamente il tema di questo appunto ed è la seguente: “Anche coloro che credono nella pace e nella nonviolenza si radunano, marciano, manifestano. La fede è la miccia che accende la forza archetipica di Marte e avvia l’imprevedibile, rovinoso corso della guerra”.

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