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Il grande gioco di Peter Hopkirk

Pubblicato mercoledì 25 Dicembre 2019 alle 15:21 da Francesco

Per me l’ultima lettura dell’anno è stata quella de “Il grande gioco”, un saggio storico di Peter Hopkirk sulle cui pagine ho approfondito la rivalità tra la Russia zarista e l’impero britannico nello scenario centroasiatico che ne è stato lo scacchiere dal diciannovesimo secolo fino agli albori del secolo breve.
Ho trovato il pregio di questa trattazione nel taglio quasi romanzesco di certi passaggi, ma d’altro canto, anche e soprattutto in forza della loro natura avvincente ed epica, non credo che certi eventi fossero passibili di un’esposizione molto diversa. Oltre alle nozioni storiche ho colto i profili caratteriali dei grandi e talora sventurati protagonisti di entrambe le parti, a riprova di come l’ambizione, la temerarietà, la codardia, l’idealismo, l’astuzia, l’arroganza, la paura, il freddo calcolo e molto altro innervino l’animo umano oggi come ieri.
Da letture simili e pregresse ho maturato la convinzione che la vera uguaglianza dei popoli si annidi nella reciproca tendenza alla sopraffazione sebbene l’ultima fase dell’età contemporanea, quantomeno a certe latitudini, ne abbia attenuato l’intensità e mutato la forme.
Ho ritrovato ne “Il grande gioco” alcuni luoghi dei quali Hopkirk già mi aveva reso edotto con maestria nelle stupende pagine di “Diavoli stranieri sulla Via della Seta”, primo fra tutti il deserto del Karakorum. È un peccato che questi angoli del mondo siano un po’ pericolosi per gli occidentali, paradossalmente più oggi che ai tempi in cui persino i cartografi ne sapevano poco, e spesso in ragione di cause analoghe a quelle descritte nel libro.
Piccoli e spietati sovrani di qualche khanato, burocrati, ufficiali eroici, propaganda russofoba e anglofoba, dissidi interni alla stessa fazione come nel caso della politica estera britannica con le sue oscillazioni tra laburisti e conservatori: insomma, una sequela di dinamiche e soggetti archetipici che la storia porta in seno da prima che diventasse tale con l’invenzione della scrittura.
Un’ultima nota la riservo all’attacco proditorio che i giapponesi sferrarono nel 1904 a Port Arthur e con cui diedero avvio alla guerra contro la Russia da cui poi uscirono vincitori. Quest’episodio è esposto nelle pagine finali dello scritto e quando l’ho appreso mi è venuto subito in mente lo stesso modus operandi dei nipponici a Pearl Harbor: un precedente che depone a sfavore di chi, vittima del complottismo e di un sentimento antiamericano, ha sempre creduto che gli Stati Uniti fossero a conoscenza del piano giapponese.

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Diavoli stranieri sulla Via della Seta

Pubblicato martedì 2 Luglio 2019 alle 18:51 da Francesco

Ho da poco concluso la lettura del testo in oggetto che ha costituito il mio primo approccio con la saggistica di Peter Hopkirk, tuttavia sono già in procinto di iniziare “Il grande gioco” e in futuro conto di procurarmi almeno uno dei suoi tre libri in inglese per i quali non v’è mai stata una traduzione in italiano.
Secondo me Hopkirk ha il merito di ripercorrere le gesta di grandi archeologi con uno stile avvincente, più da romanziere che da saggista puro, e da quanto ho avuto modo di constatare mi sembra che quest’ultima sia un’opinione abbastanza diffusa.  In ”Diavoli stranieri sulla Via della Seta” ho colto una retrospettiva su quei pionieri occidentali (più le spedizioni nipponiche del conte Otani) che all’alba del secolo breve riportarono alla luce il passato delle civiltà centroasiatiche, ma nei toni di quelle cronache ho ravvisato un’epicità sui generis, specialmente nel titanismo dei protagonisti al cospetto del Takla Makan.
Ho trovato icastiche e suggestive le descrizioni dei luoghi che non sono state ridotte a una fredda sequela di dettagli, bensì snocciolate di pari passo con i progressi di coloro che vi si stagliarono. Per me un altro ausilio al ritmo dell’esposizione è scaturito da certi aneddoti e dal profilo di figure minori, quale per esempio quella del furbo Islam Akhun, ma anche dalle feroci lotte tra accademici, come nell’imbarazzante caso di Hörnle sul quale Sir Aurel Stein non inferì o nella campagna diffamatoria che certi francesi operarono ai danni dell’arrogante Pelliot.
Al netto di quanto ho appreso non mi sento di condannare chi portò in Europa resti e manoscritti di culture che, se fossero rimaste in situ, con buona probabilità sarebbero caduti sotto la ferocia iconoclastica dei musulmani, tuttavia, sempre alla luce di questa lettura, riconosco come tutto quel patrimonio per lungo tempo non sia stato valorizzato in Occidente.

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