10
Ago

Niente di che

Pubblicato martedì 10 Agosto 2010 alle 19:37 da Francesco

Ovunque mi pare d’intravedere individui che non amino sé stessi. Odo e leggo critiche ripetitive verso la società civile da cui certuni cercano di differenziarsi tramite l’uso della parola e solo di questo, ma tali acuti osservatori mi paiono dei poveri imbecilli allo sbaraglio, inetti alla ricerca di attenzioni che non sanno procurarsi in un modo meno subdolo. Ammiro chiunque sia votato al miglioramento di sé, ancor più di chiunque si dedichi alla filantropia e non escludo affatto che le due pratiche possano viaggiare di pari passo. Ho l’impressione che qualcuno reputi un’azione indegna d’essere compiuta se quest’ultima non presenti alcuna possibilità di raggiungere la considerazione altrui. Io nego sempre l’idea che la mia persona possa risultare gradevole o addirittura interessante benché la realtà non sia così netta, ma questo approccio mi permette più facilmente di non forzare né viziare (perlomeno coscientemente) i miei comportamenti affinché combacino con la simpatia degli estranei o dei conoscenti. Cerco di pormi al di là delle formalità e talvolta mi vedo un po’ irruento, volgare, inopportuno, irriverente, insolente, troppo distaccato o eccessivamente aperto, ma credo che questa maleducazione apparente sia un prezzo ragionevole da pagare per salvare il salvabile in termini di autenticità. D’altronde sto attento anche alla attenzioni che riservo ai miei gesti e cerco d’evitare che s’incanalino in automatismi difensivi. Voglio stare tra due forze contrarie, senza (di)pendere troppo da una parte o dall’altra.
Credo che la suggestione sia la più grande nemica di un comportamento sincero e la trovo un’avversaria abile poiché la sua forma cambia di persona in persona, di circostanza in circostanza. Non credo che la confidenza riduca l’incidenza dei gesti manierati, anzi, suppongo che in alcuni casi possa provocarne una cristallizzazione e difatti mi è capitato più d’una volta di percepire dei discorsi artefatti in un gruppo apparentemente affiatato di persone. Ovviare a tutto questo comporta la necessità di mantenere una certa soglia di attenzione e talvolta, quando la stanchezza è troppa, mi permetto di delegare la comunicazione a delle reazioni quasi meccaniche di cui le frasi di circostanza sono un ottimo esempio.

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18
Nov

Gli strati del vuoto

Pubblicato domenica 18 Novembre 2007 alle 10:56 da Francesco

Adopero l’indifferenza per schermirmi dagli scherni della spiritualità e mostro la mia indole materialistica per declinare ogni invito alle ricerche ultraterrene, ma non mi affido al nichilismo né ad altre scuole di pensiero. Apprezzo il vuoto e proteggo la sua vacuità dalle consolazioni nocive che galleggiano nel mondo in cui vivo, ma per agire in questo modo sono costretto a rimandare a tempo indeterminato certe acrobazie dei sensi. Identifico il vuoto con la mancanza di qualcosa e credo che sotto i suoi strati di sconforto si trovi uno strumento ostico per rinvigorire la personalità. Incontro qualche difficoltà semantica nella ricerca delle parole adatte per appuntare con precisione i vapori di questo geyser introspettivo e mi accingo a esemplificare brevemente quanto ho scritto in precedenza. Quando un individuo si accorge del vuoto che lo avvolge e guarda al suo interno egli può arrestare il suo sguardo davanti agli strati di sconforto e consumarsi in un vittimismo tanto deleterio quanto inutile, ma qualora il suo occhio riesca a penetrare la vacuità può cominciare a studiare i meccanismi di ciò che ancora non gli appartiene. Ad esempio quando una persona avverte la mancanza di amore può cristallizzarsi nella malinconia e nella nostalgia o può utilizzare la parte più profonda della sua mancanza (lo strumento ostico) per affinare la sua capacità di amare e credo che questa scelta avvenga in base a un’intuizione indipendente dal livello di erudizione. Suppongo che la felicità e la visione del mondo che essa porta con sé lambiscano la traiettoria della cultura, ma sono portato a credere che quest’ultima non sia fondamentale per raggiungere uno stato d’animo ben più pregiato di qualsiasi nozione del cazzo.

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26
Set

La calma del vuoto amorale

Pubblicato mercoledì 26 Settembre 2007 alle 05:08 da Francesco

Il cuore della notte smette di battere e la coscienza si spoglia di ogni giustificazione. La propria identità si rivela chiaramente accanto a una luce fioca o nell’uniformità del buio. Qualsiasi stratagemma consolatorio cade e gli occhi sono costretti a vedere tutte le cose davanti alle quali si sono sottratti in un primo tempo. Il sapore delle proprie decisioni cambia radicalmente e ogni sofisma perde i suoi effetti ansiolitici. Il responsabile di se stesso nota su ogni atomo il riflesso delle motivazioni reali che lo hanno portato a compiere determinate scelte. Ogni scusa artificiosa volge le spalle al suo creatore e non proferisce parola. Bastano otto ore di sonno per tornare a credere fermamente nelle proprie menzogne, ma nulla può cancellare le confessioni silenziose della personalità. La realtà individuale viene alterata al di sopra del bene o al di sotto del male in modo che diventi sopportabile per il suo proprietario, ma questa contraffazione morale può essere evitata e qualora il coraggio abbondi lo si può usare come propellente per spingersi nella ricerca spasmodica di un brandello di oggettività. Non è semplice proiettarsi verso qualcosa che non offre una ricompensa e la sofferenza di questo processo sembra tanto insensata quanto intollerabile, ma credo che la possibilità di addolorarsi o di adorare autenticamente sia una delle più grandi conquiste interiori a cui l’essere umano possa ambire. Le religioni e le ideologie sono le caricature delle loro promesse, ma non bado a chi mette le carote davanti agli asini e procedo sulla linea del tempo senza frapporre tra me e la mia fine delle utopie antropomorfiche.

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