16
Mag

La lettura come meditazione

Pubblicato sabato 16 Maggio 2020 alle 22:10 da Francesco

In passato, a mia totale insaputa, ho cercato per lungo tempo delle forme di raccoglimento e concentrazione, ma solo a un certo punto della mia giovane esistenza mi sono reso conto che svolgevo certe attività per il surrettizio perseguimento di quegli scopi. Ho corso migliaia di chilometri nell’illusione che il podismo fosse per me un passatempo spontaneo, ma in realtà già dai primi passi costituiva un metodo meditativo e uno strumento introspettivo. Solo dopo anni alcune cose hanno cominciato a prendere forma ai miei occhi in maniera progressiva, un pezzo alla volta, fino a quando mi hanno restituito una visione d’insieme che mi è apparsa coerente. Avrei un bel vantaggio sugli eventi se riuscissi a comprenderne la natura primeva sulla scorta delle loro immediate manifestazioni, ma forse i miei limiti cognitivi mi costringono ad attendere una certa latenza: io compirei un’opera meritoria per me stesso se cercassi di capire come ovviare a tale ritardo o se almeno trovassi un modo per ridurne la portata.
In questo quadro di considerazioni la lettura è un’altra delle forme di meditazione a cui ricorro. Leggo sempre ad alta voce e ultimamente lo faccio in piedi con l’ausilio di un vecchio leggìo il quale mi piace pensare che non abiti per caso nella mia magione. La scansione delle parole mi ricorda una giaculatoria o un mantra e l’apprendimento che ne deriva mi offre un appagamento di cui mi piacerebbe monitorare i correlati neurochimici. Con questo procedimento provo un senso di rilassatezza e concentrazione, come se lambissi o esperissi in modo passeggero ciò che in un altro linguaggio è chiamato “centro di gravità permanente”. La postura, l’impostazione della voce, la mia attenzione e il contesto ambientale concorrono a creare quelle circostanze in forza delle quali il mio cerebro secerne sostanze endogene a cui sono riconducibili gli effetti anzidetti.
Ho notato come io avverta un profondo senso di soddisfazione quando mi riesca di leggere molteplici paragrafi senza alcuna esitazione, con la voce ferma e una postura corretta ma al contempo rilassata. Queste sensazioni sono diverse da quelle che mi cagiona l’allenamento fisico, ma hanno un comune denominatore che non sono in grado di specificare e di cui riesco solo ad avvertire il fil rouge. Per allungare il brodo potrei lanciarmi in ipotesi speculative senza capo né coda, le quali potrebbero risultare valide soltanto con la complicità delle coincidenze, ma preferisco che quest’appunto mantenga un carattere descrittivo.

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18
Feb

L’indagine interiore

Pubblicato sabato 18 Febbraio 2017 alle 17:50 da Francesco

Ci sono dei giorni in cui mi sento alla deriva, del tutto perso in quest’oceano privo di senso che è la vita mortale. Non ho aspirazioni ultraterrene e non mi aspetto una promozione celeste sul campo, ma tutt’al più nei campi elisi. A volte penso a come il tempo riesca a passare in sordina per molti anni, senza destare stupore alcuno prima che, improvvisamente, scateni dei dubbi ferocissimi su come sia stato impiegato fino a quel momento.
Invero sono molte di più le giornate in cui sono in sintonia con la realtà che mi circonda e di cui faccio parte, perciò non presto troppa attenzione alle ciarle di una saltuaria stanchezza e ne rido sguaiatamente ogni volta che torno in forze. La mente è un congegno miracoloso, però è anche capace di tiri mancini ed è per questa ragione che una volontà tenace deve contenerne l’esuberanza, o almeno questo è quanto presuppongo per me stesso.
Al di là delle prassi quotidiana, comprensiva di tutte le sue bizzarrie ed efferatezze, v’è di certo una porzione della realtà che è del tutto inedita per i sensi, ma di cui è difficile scandagliare già la sola superficie: non è solo la Luna che possiede una faccia nascosta. Sempre più di sovente avverto in me la forte necessità di avvicinarmi a una dimensione che sia altra da quella che mi è dato d’esperire ogni dì, ma al contempo mi guardo bene dalle trappole dall’autosuggestione e dal facile fascino di certi esotismi. Nutro la convinzione che sia possibile produrre in sé stessi dei temporanei cambiamenti organici per fare un uso insolito delle proprie funzioni cerebrali, però senza l’ausilio di sostanze psicotrope e quindi con un protocollo privo di effetti collaterali.
Mi auguro che prima o poi da una mia esperienza inedita io possa raccogliere qualcosa di cui scrivere con cognizione di causa, ma non è escluso che tutto finisca in un nulla di fatto, come forse l’esistenza stessa.

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12
Giu

Lo stato di coscienza ordinario

Pubblicato venerdì 12 Giugno 2015 alle 09:43 da Francesco

In passato ho rimandato più volte un serio approccio a qualunque forma di meditazione perché non sapevo orientarmici e non avevo le idee chiare sulle mie necessità: sporadici tentativi, a tratti un po’ naif, non mi hanno mai portato oltre un breve sollievo. Per me un avvicinamento razionale alla pratica è un primo e imprescindibile passo da compiere poiché mi ritengo un occidentale a tutti gli effetti e non so procedere altrimenti, tuttavia so bene che degli eventuali sviluppi non possono essere del medesimo tenore e devono perciò snodarsi su un altro piano. Ho quasi terminato la lettura di Stati di coscienza di Charles T. Tart e in una parte del libro, il cui argomento sono gli stati di coscienza alterata, vi è una digressione sulla meditazione che io ho trovato piuttosto istruttiva. Anzitutto ho gradito l’uso esplicativo e pragmatico di espressioni che altrove ho sempre percepito (forse per una mia mancanza) piuttosto astruse; mi riferisco in particolare all’impiego del termine “energia”: ne riporto un esempio affinché le mie parole non finiscano per essere avvolte dalla stessa fumosità verso cui ho appena dichiarato insofferenza. Lo stato di coscienza ordinario è considerato naturale poiché si presta alle esperienze familiari di tutti i giorni, ma per mantenere il proprio regime ha bisogno di energie che lo stabilizzino e queste sono prodotte dalle fonti più disparate, quali i movimenti del corpo, le attività quotidiane e ovviamente il pensiero, col suo continuo rumore di fondo, perciò se le energie anzidette non fossero impiegate allora lo stato di coscienza ordinario potrebbe lasciare il posto ad altri stati di coscienza: secondo me è significativo che a questo proposito Tart citi Don Juan (lo sciamano di Carlos Castaneda) e ricordi com’egli invitasse il suo allievo a rallentare il pensiero.
In realtà non c’è nulla di nuovo sotto il sole poiché in certi ambiti e alle latitudini più disparate la sospensione dell’attività mentale risulta sempre una conditio sine qua non, ma a mio avviso Tart ha il pregio di spiegarla in termini tutt’altro che iniziatici. È su tale attività discorsiva che si staglia una metafora induista che in altri contesti forse non sarei riuscito ad apprezzare in egual misura; mi riferisco all’immagine dello stato di coscienza ordinario come quella di una scimmia ubriaca e dispettosa che vada di albero in albero dietro la spinta dei suoi desideri animaleschi.
Io non ho mai fatto uso di droghe, neanche di quelle di Stato (cioè tabacco e alcolici), però ho sempre compiuto una netta differenza tra l’uso di sostanze psicotrope a scopo ricreativo (che in realtà è analgesico, ma questo punto mi riservo di rimarcarlo nel saggio che sto scrivendo) e un uso atto ad espandere la coscienza (tale è per esempio il ricorso al peyote con l’ausilio di uno sciamano); mi pare che Tart nel suo libro proponga una visione abbastanza simile benché la sua abbia un taglio (eh già, la parola è azzeccata…) più scientifico e si astenga dai giudizi di valore.
Tutti questi concetti non sono mere astrazioni sebbene io non escluda che nascano e poi si sviluppino con l’intento di esserlo, perciò me ne servo come se fossero dei pezzi di ferraglia da impiegare per scopi diversi da quelli per cui sono stati creati; non c’è bisogno che lo scriva e dunque lo scrivo perché non sono i soli bisogni a muovermi: da ciò cerco un riverbero concreto.

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