5
Apr

Prossima fermata: Satya Yuga

Pubblicato giovedì 5 Aprile 2012 alle 10:24 da Francesco

Credo che per ragioni ataviche l’essere umano conservi in sé una sete di sangue e suppongo che quest’ultima possa affiorare in qualsiasi momento, specialmente nei casi di esasperazione. Dietro ogni violenza c’è un disagio e penso che il male assoluto sia davvero raro nonostante le razionalizzazioni di certi genocidi possano indurre a credere il contrario sulla base di uno slancio emotivo. La prova della primitività di quest’epoca risiede nell’attuale impossibilità di rendere un evento raro l’uccisione di un individuo per mano di un suo simile.
Non biasimo quella folla che ha applaudito un orafo per aver ucciso una rapinatrice e di sicuro se mi fossi trovato là in mezzo anch’io mi sarei messo a battere le mani, però immagino che tali manifestazioni d’apprezzamento siano l’espressione di qualcosa che trascende l’episodio in sé. L’esasperazione puzza di demagogia e viceversa, inoltre è il piede di porco (di solito amputato ai governanti in odore di condanna a morte) per scardinare le democrazie. In Italia aleggia un senso di impunità e vige un garantismo (invero per taluni, non per tutti) che di caso in caso fa sì che l’asticella della tolleranza si abbassi sempre di più. Vivo come una sconfitta della mia specie l’idea (che abbraccio in toto) secondo cui in certi momenti bisogna fare alcuni morti per evitarne molti di più, possibilmente tra le fila di coloro che de facto sono rei di circostanze ad orologeria. Qualcuno potrebbe farmi notare che l’idea accennata sopra stia alla base dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki e, in scala “minore”, anche di quella che fu (forse è ancora o sarà?) la strategia della tensione: sarebbe una giusta obiezione che probabilmente qualche americano con alle spalle una bandiera degli stati confederati chiamerebbe “danno collaterale”.
Molti problemi esistono soltanto a posteriori, ovvero quando l’esito tragico vi è già stato e può innescarne altri. Per l’induismo questo tempo è quello del Kali Yuga e dovrebbe durare per altri quattrocentomila anni, però in questo periodo sono certo che grazie alla povertà, all’odio, alla sovrappopolazione, allo sperpero di energie e quant’altro componga il ventaglio mortifero della mia specie, ebbene grazie a tutto ciò nutro la granitica certezza che le reincarnazioni saranno sbrigate velocemente e con solerzia! Io voglio rinascere fiume per diluire il sangue già versato.

Categorie: Parole |

6
Apr

Kali Yuga

Pubblicato mercoledì 6 Aprile 2011 alle 23:24 da Francesco

Ho commesso errori monumentali, come se avessi ancora bisogno di altre cattedrali nel deserto. Pago i miei sbagli senza buttarmi giù. Ultimamente faccio fatica ad addormentarmi, però non ho paura dei fantasmi che mi sfidano. Erano anni che non mi trovavo a combattere contro il dolore. Una parte di me vorrebbe abbattersi perché è più facile e consolante, ma non ci penso proprio a cadere. Conosco le astuzie dell’inconscio. Incasso i colpi che non riesco a schivare e mi sembra che qualcosa mi laceri dallo sterno fino all’ombelico, ma in questi casi ritraggo l’addome e me lo batto con colpi secchi per attenuare i picchi di frustrazione.
Se mi lasciassi andare allo sconforto per me sarebbe la fine e di certo non troverei mani tese ad aiutarmi. Non mi serve la comprensione, ma voglio meritarmi la possibilità di amare e per quanto sia difficile, la perderei irrimediabilmente se in primo luogo dimenticassi d’amare me stesso. Per quanto mia madre mi voglia bene, io non riesco a primeggiare neanche nel suo cuore e non la incolpo per questo, ma nel corso degli anni, di conseguenza, ho finito per credere che non sarei mai riuscito ad essere un punto di riferimento per una ragazza e anche a causa di questa convinzione sbagliata sono rimasto distante dall’altro sesso.
Mi sono concentrato troppo su me stesso, ma la mia unica alternativa era l’autodistruzione e se l’avessi scelta allora la croce invece di sfasciarla in terra me la sarei ritrovata due metri sopra il cranio. Avverto una sofferenza profonda che voglio sconfiggere benché per adesso riesca solo a conviverci. Qualcuno si anestetizza con il tabacco, con l’alcol, con la droga o con le parole degli amici, ma io non sono mai ricorso a nulla di tutto questo e oggi più di ieri voglio la lucidità al mio fianco per attraversare un periodo che si preannuncia lungo e denso di mestizia.
Pago sempre la mancanza di esperienza e dentro di me c’è molto d’inespresso che non riesce a trovare uno sbocco. Dopo anni di serenità solitaria forse era inevitabile che arrivassi a questo punto, ma ne sono contento perché mi sento vivo. Soltanto una malattia grave potrebbe avere qualche chance di annientarmi, perciò se un cancro volesse mettersi i guantoni… Adesso io non posso più vantare la brutta copia dell’atarassia, ma chissà, prima o poi potrei riappropriarmene.

Categorie: Intimità, Parole |

28
Ago

Dicotomie evitabili

Pubblicato sabato 28 Agosto 2010 alle 09:32 da Francesco

In quest’epoca di pace apparente ci sono individui che cercano ugualmente un rifugio e alcuni di loro lo trovano nella cultura. Mi fa sorridere chiunque ritenga che sia sufficiente coltivare le virtù dianoetiche per tenere a debita distanza i propri limiti. Io non entro in una torre d’avorio, però una pisciata prospiciente il suo ingresso sono sempre disposto a concederla.  
Pare che per qualcuno la lettura di certi libri e la frequentazione di determinati corsi forniscano un voucher con cui ritirare subito un attestato per la propria personalità. Ai miei occhi la sete di sapere è pressoché identica a quella di potere ogniqualvolta dismetta i panni della necessità evolutiva per diventare la tonalità dominante del proprio autoritratto. L’edonismo intellettuale è piuttosto squallido. Per fortuna non sono abbastanza acculturato da tenere più alle nozioni che a me stesso. Non di rado odo invettive vivaci contro certe figure dell’intrattenimento televisivo e solitamente queste critiche feroci provengono da individui che sentono il bisogno di sminuire quanto risulti contrario al loro mondo per avallare ulteriormente quest’ultimo. Nemmeno io sono sempre estraneo a questi infantilismi, perciò posso tenere per me qualche frase di scherno da rivolgermi all’uopo; come si suol dire: “Prendi l’arte e mettila da parte”.
Nella mia esistenza non cerco di forzare ogni cosa dentro determinati confini per aggrapparmi all’illusione di controllare ogni aspetto della vita. Io non sono né la somma delle mie conoscenze frammentarie né il feto di un futuro gravido e non sento proprio la necessità di definirmi poiché già negarmi per me costituisce un certo impegno. La morte di Raimon Panikkar mi ha riportato alla mente Jiddu Krishnamurti e in particolare un passaggio di una sua conferenza che ho letto mesi fa in quel di Taiwan.

“Per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta. Siamo plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione, dagli schemi di vita; siamo invidia, gioia, angoscia, zelo, godimento, ognuno di noi è questo, ovvero il processo di continuità. Ognuno è attaccato alle proprie opinioni, al proprio modo di pensare, ed ha paura che senza i suoi attaccamenti non sarebbe nulla, allora si identifica con la casa, la famiglia, il lavoro, gli ideali… ma quanti sono quelli capaci di porre fine a tale attaccamento e realizzare il distacco? È necessario comprendere i processi del pensiero e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo. Il pensiero, tramite un processo psicologico, crea il tempo, e il tempo poi controlla e configura il nostro pensiero. Il senso di continuità è stato edificato dalla mente, quella mente che guida se stessa per mezzo di precisi schemi e che ha il potere di creare ogni sorta di illusione. Lasciarsi intrappolare mi sembra una scelta tanto inutile quanto priva di maturità”.

Non mi ritengo ancora in grado di esperire il distacco a cui si riferisce Krishnamurti e di cui comunque fiuto la validità, però lo inquadro come un atto episodico da compiere a tempo debito e nient’affatto come un invito a praticare un’ascesi vitalizia. D’altronde egli derideva spesso i santoni, i guru, le meditazioni e ogni altro balocco mistico con un’ironia fantastica. Ricordo che una mattina, mentre ero intrappolato nella metropolitana di Taipei, sul mio volto comparve per l’ennesima volta un’espressione divertita e in quell’occasione l’innesco dell’ilarità fu una frase di Krishnamurti che paragonava l’ashram a un lager.
Io non mi avvicino a certe tematiche per sopperire alle  mancanze della mia vita e non cerco un pensiero al quale uniformarmi per denigrarne degli altri. Raccatto qualche visione d’insieme qua e là per prenderne ogni spunto che mi possa tornare utile nell’introspezione. Non m’interesso all’interpretazione del mondo in senso lato benché spesso l’autoanalisi la chiami in causa. Sono io la mia priorità, ma allo stesso tempo non posso inquadrarmi al di fuori del contesto sociale in cui vivo e se provassi a fare una cosa del genere mi limiterei a coltivare una nevrosi autoreferenziale. Faccio parte di questo mondo a tempo determinato e ormai, dopo quasi due decenni di adattamento, posso affermare di trovarmici bene.

Categorie: Intimità, Parole |