15
Ago

E Kabul cadde come corpo morto cade

Pubblicato domenica 15 Agosto 2021 alle 23:23 da Francesco

Seguo la nuova ascesa dei talebani in Afghanistan e per tenermi aggiornato sugli sviluppi raccolgo filmati amatoriali a cui aggiungo delle didascalie imparziali, infine carico i risultati sotto forma di collage riassuntivi sul mio canale YouTube, ordinati in una playlist di conflitti bellici.
In questo modo riesco a procurarmi una visione d’insieme e ad approfondire questioni che, fatta eccezione per certe agenzie di stampa estere tra cui Reuters e Associated Press, sono trattate quasi sempre con un certo ritardo e approssimazione rispetto ai tempi e ai modi di Internet.
Se fossero ancora vivi mi piacerebbe leggere i punti di vista di due miei corregionali, Tiziano Terzani e Oriana Fallaci, ma forse basta sfogliare le pagine di qualche loro vecchio articolo per capire come, in fondo, nulla sia cambiato da allora.
Da quanto ho visto e letto non mi sembra che in Afghanistan vi siano molti individui pronti a immolarsi per la democrazia, a riprova di come quest’ultima probabilmente è stata sostenuta perlopiù da chi l’ha usata come pretesto per ragioni egemoniche ed economiche.
Molteplici filmati in diverse città del paese ritraggono la popolazione autoctona che accoglie entusiasta l’arrivo dei talebani, perciò la rapida ascesa degli insorti implica anche un certo grado di concorso da una parte dei civili.
Le similitudini con la guerra in Vietnam si sprecano, però forse quella afghana ha come aggravante l’illustre precedente del sud est asiatico, il quale con il senno di poi non è servito da monito. Miliardi e miliardi di dollari, eccidi, distruzioni, sindromi da stress post-traumatico e altri cosiddetti “danni collaterali” per nulla. L’occupazione del paese è iniziata con dodici anni di operazione “Enduring Freedom” ed è finita con un talebano, probabilmente sotto l’effetto d’oppio, che danza allegramente in un palazzo governativo.
La democrazia non è un valore universale e pretendere che lo sia, almeno a questo stadio della storia umana, rasenta quello stesso fanatismo contro cui essa si leva, perciò la caduta di Kabul offre anche questa chiave di lettura e ricorda le tante sfaccettature della mia specie.
È difficile sconfiggere chiunque sia disposto a farsi martire per un’idea. Con estrema lucidità e obiettività va dato atto ai talebani di possedere un indomito spirito guerriero, il quale ha avuto la meglio su tutti i propositi più o meno buoni dell’Occidente; Occidente che, secondo me, deve considerare questa sconfitta come foriera di futuri attentati nei suoi confini sempre più aperti e instabili.

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16
Feb

Gli yogin del Ladakh e Odio, rabbia, violenza e narcisismo

Pubblicato martedì 16 Febbraio 2021 alle 20:30 da Francesco

Le mie ultime letture in ordine cronologico attengono ancora una volta alla saggistica, campo dal quale ormai fuoriesco di rado. Odio, rabbia, violenza e narcisismo è un testo brevissimo, non raggiunge neanche le cento pagine, però è molto denso ed è rivolto a chi abbia già un po’ di confidenza con le tematiche psicoanalitiche. Io non vi ho appreso nulla di nuovo, ma al suo interno ho trovato utile il breve riepilogo delle moderne teorie degli istinti e delle emozioni con l’accostamento allo storico approccio freudiano, tutto volto a particolareggiare gli sviluppi delle prime: interessanti ed esplicativi i casi clinici di esempio. Il tratto preminente di queste pagine a me è sembrato quello della relazione oggettuale, tanto come terreno d’indagine quanto strumento terapeutico a mezzo transfert. Ottima l’esposizione di Otto F. Kernberg. Ormai gli impianti teorici della disciplina mi sono noti da anni, perlomeno nei loro termini essenziali, perciò in futuro proverò a cercare delle opere che pongano maggiormente l’accento sui casi clinici.
L’altro testo in esame l’ho affrontato sul mio fido Kindle 4 (quasi dieci anni d’onorata carriera, con buona pace del consumismo sfrenato) e l’ho scelto per due ragioni: un interesse metafisico e la curiosità verso quei territori nei quali, almeno in parte, già Hopkirk mi aveva condotto tramite un paio di suoi saggi storici, ossia Diavoli stranieri sulla via della seta e Il grande gioco.
Gli yogin del Ladakh è al contempo un resoconto della dimora delle nevi dal punto di vista paesaggistico ed etnico, ma consta anche di molteplici disquisizioni su certe tecniche di meditazione e sul concetto stesso di Dharma, oltre alle divergenze dei vari indirizzi dottrinali, tra l’altro a opera di due uomini (James Low e James Crook) che già erano adusi a determinate pratiche e le cui esposizioni nel testo mi hanno trasmesso la loro esigenza di approfondire le rispettive vie.
Ho trovato un po’ complicato ricavare una visione d’insieme delle scuole e dei lignaggi, perciò la lettura di alcune parti l’ho integrata con delle ricerche sul web. Un passaggio del testo sembra giustificare la moltitudine delle varie tecniche in quanto afferma che esse sono espedienti per persone con diverse capacità e realizzazioni. A livello meramente semantico ho chiarito a me stesso vari termini, tra i quali i titoli di “rinpoche“, “lama” e “geshe“, mentre sotto il profilo storico ho scoperto la figura di Machig Labdron, di cui non sapevo nulla, e la severità di Marpa verso Milarepa che spinse più volte il secondo sull’orlo del suicidio; interessante anche l’aspetto aneddotico che riguarda i personaggi coevi delle peregrinazioni descritte, quindi a metà degli anni ottanta del secolo breve: squarci d’un vivere dove il tempo s’era arrestato da secoli. Una menzione va a Tenzin Palmo, la quale è citata di sfuggita perché nel suo nome s’imbattono Low e Crook mentre lei è in ritiro da anni in una caverna: si tratta di una donna inglese fattasi monaca (bhiksuni) che in seguito sarà costretta a lasciare l’Asia per problemi di visto e finirà in Italia, ad Assisi: quest’ultima circostanza l’ho appurata con una mia ricerca personale.
È un libro che oscilla tra il sacro e il profano, dove al primo è ascritta una ricerca spirituale e al secondo le prosaiche avversità di cui ogni viaggio incerto sa essere prodigo, ma a mio parere questa natura ibrida giova al ritmo dello scritto. Gradito e utile è anche il testo di Padma Karpo su cui gli autori si soffermano verso la fine dell’opera.

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25
Dic

Il grande gioco di Peter Hopkirk

Pubblicato mercoledì 25 Dicembre 2019 alle 15:21 da Francesco

Per me l’ultima lettura dell’anno è stata quella de “Il grande gioco”, un saggio storico di Peter Hopkirk sulle cui pagine ho approfondito la rivalità tra la Russia zarista e l’impero britannico nello scenario centroasiatico che ne è stato lo scacchiere dal diciannovesimo secolo fino agli albori del secolo breve.
Ho trovato il pregio di questa trattazione nel taglio quasi romanzesco di certi passaggi, ma d’altro canto, anche e soprattutto in forza della loro natura avvincente ed epica, non credo che certi eventi fossero passibili di un’esposizione molto diversa. Oltre alle nozioni storiche ho colto i profili caratteriali dei grandi e talora sventurati protagonisti di entrambe le parti, a riprova di come l’ambizione, la temerarietà, la codardia, l’idealismo, l’astuzia, l’arroganza, la paura, il freddo calcolo e molto altro innervino l’animo umano oggi come ieri.
Da letture simili e pregresse ho maturato la convinzione che la vera uguaglianza dei popoli si annidi nella reciproca tendenza alla sopraffazione sebbene l’ultima fase dell’età contemporanea, quantomeno a certe latitudini, ne abbia attenuato l’intensità e mutato la forme.
Ho ritrovato ne “Il grande gioco” alcuni luoghi dei quali Hopkirk già mi aveva reso edotto con maestria nelle stupende pagine di “Diavoli stranieri sulla Via della Seta”, primo fra tutti il deserto del Karakorum. È un peccato che questi angoli del mondo siano un po’ pericolosi per gli occidentali, paradossalmente più oggi che ai tempi in cui persino i cartografi ne sapevano poco, e spesso in ragione di cause analoghe a quelle descritte nel libro.
Piccoli e spietati sovrani di qualche khanato, burocrati, ufficiali eroici, propaganda russofoba e anglofoba, dissidi interni alla stessa fazione come nel caso della politica estera britannica con le sue oscillazioni tra laburisti e conservatori: insomma, una sequela di dinamiche e soggetti archetipici che la storia porta in seno da prima che diventasse tale con l’invenzione della scrittura.
Un’ultima nota la riservo all’attacco proditorio che i giapponesi sferrarono nel 1904 a Port Arthur e con cui diedero avvio alla guerra contro la Russia da cui poi uscirono vincitori. Quest’episodio è esposto nelle pagine finali dello scritto e quando l’ho appreso mi è venuto subito in mente lo stesso modus operandi dei nipponici a Pearl Harbor: un precedente che depone a sfavore di chi, vittima del complottismo e di un sentimento antiamericano, ha sempre creduto che gli Stati Uniti fossero a conoscenza del piano giapponese.

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30
Mar

Un indovino mi disse

Pubblicato venerdì 30 Marzo 2012 alle 21:08 da Francesco

Due giorni fa sul mio fedele Kindle ho finito di leggere “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani e ne ho tratto grande giovamento. Dal libro emerge chiaramente la piega presa dall’Asia e il costo del cambiamento socioeconomico che all’epoca aveva già preso ad attecchire sul contente e di cui la Cina odierna è la conseguenza più palese. La scrittura di Terzani è meravigliosa perché il suo approccio non è quello di un giornalista distaccato, bensì di un uomo che in alcuni passaggi sembra ricercare se stesso oltre a qualche storia da raccontare e in questo senso ritengo che la visione della sua ultima intervista, Anam Il Senzanome, quand’egli sapeva già di dover morire, sia davvero illuminante, tanto per fare un gioco di parole…
Le descrizioni dei luoghi, gli aneddoti, le riflessioni sulle implicazioni storiche dei paesi in cui egli transita o si trova a vivere, le contraddizioni culturali e quelle personali: in questo calderone di umanità c’è l’essenza del viaggio! Ironia, amarezza e commozione costellano un libro che mi ha fatto molto bene e nel quale ho rivisto un po’ l’Asia che ho avuto modo di conoscere: di sicuro non la migliore. Massacri, ideologie, avvicendamenti, trattati e cerimonie; indovini, ex guerriglieri comunisti convertiti al narcotraffico, speranze tradite e opulenze contrapposte a povertà di gran lunga più diffuse: questo e molto di più emerge dalla cronaca di un anno in cui Terzani decide di viaggiare in treno, auto, risciò, moto o nave, per attenersi alla profezia di un indovino, poi avveratasi, che diciassette anni prima lo aveva messo in guardia dal pericolo di volare nel 1993.
Malgrado la coincidenza, traspare chiaramente la natura fiorentina di Terzani ed è così che la divinazione si trasforma in una scusa per viaggiare come già allora avveniva sempre più di rado sulle lunghe distanze, ovvero via mare e via terra, a stretto contatto con un’umanità che non si può assimilare a bordo d’un Boeing né tanto meno in un qualsiasi aeroporto, ognuno uguale all’altro come egli sottolinea giustamente.
Già all’epoca era arduo e pericoloso seguire certe vie della seta, ma oggi lo è ancor di più grazie all’impegno che l’uomo profonde per causarsi vicendevole strazio e di questo mi rammarico poiché v’è in me spirito d’emulazione. Tra una pagina e l’altra ho sentito scalpitare più volte il desiderio di ripartire prim’ancora di terminare la frase sulla quale in quel momento mi trovavo a cavalcare la voglia di perdermi in Oriente con rinnovata spensieratezza. Forse perché ne scrivo tante o per la sicumera maturata nei soliloqui in cui ne rivolgo altrettante a me stesso, ma Terzani, anzi Tiziano, mi ha ricordato come io sottovaluti troppo la forza della parola. Namaste!

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27
Set

Seoul: Agosto e Settembre 2007 – Prima Parte

Pubblicato giovedì 27 Settembre 2007 alle 01:21 da Francesco

Questa è la prima parte del video che ho girato in Corea del Sud: dura ventisette minuti. Sono soddisfatto del risultato anche se non è professionale. Mi sono divertito a scegliere le sequenze da montare per creare questo compendio filmato e ho riguardato con piacere i luoghi in cui sono stato. Devo ancora iniziare a lavorare sulla seconda parte, ma spero che compaia presto su queste pagine virtuali.

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