Le mie giornate trascorrono lentamente: leggo, scrivo, mi alleno fisicamente e ascolto molta musica. Lo spettro delle mancanze affettive mi segue ovunque, ma sopporto pazientemente la sua presenza e non mi scompongo dinanzi ai suoi effetti. Sfoglio pagine numerate, macino chilometri e riempio righe vuote per continuare a migliorarmi malgrado io non abbia un fine per farlo. Anche quest’anno sono pronto ad affrontare le mestizie imperanti dell’autunno e dell’inverno. Mi faccio largo tra i giorni con l’insistenza della mia inclinazione a vivere e affronto silenziosamente ogni inquietudine. Sono un habitué delle zone rurali e mi reco nei luoghi isolati per trovare un po’ di conforto paesaggistico. Ogni tanto penso alla mia morte e cerco di immaginare l’attimo esatto in cui la vita cessa, ma ovviamente fallisco sempre nel mio intento e mi rimprovero quando indugio troppo sulla contemplazione di questo tema. Sono una persona comune e mi appartengono di diritto gli interrogativi ancestrali che ho ereditato dalle radici del mio albero genealogico. Non sono in grado di giustificare la mia transitorietà, ma spero che sia longeva. Sono ancora giovane e devo proteggere la mia determinazione a vivere per affrontare da solo i giorni in cui conterò i miei ultimi capelli canuti. Non voglio diventare una vittima del tempo, ma voglio essere pronto e cosciente per adempiere agli obblighi improrogabili della mia natura. Continuerò a volgermi verso il miglioramento di me stesso fino a quando le mie funzioni vitali me lo consentiranno.
Due notti fa mi sono addormentato all’improvviso sopra le coperte del mio letto a causa della stanchezza che avevo accumulato con i miei esercizi fisici. Mi sono svegliato qualche ora dopo e la luce della stanza era ancora accesa, ma d’altronde solo un blackout avrebbe potuto spegnerla. In quel momento mi è sembrato di essere nuovamente un bambino e ho provato un moto di dolcezza. La scorsa notte mi sono aggirato a lungo per le vie desolate della mia cittadina e verso le cinque del mattino mi sono recato in un panificio per comprare qualcosa da mangiare. Ho acquistato un po’ di pizza e qualche dolce che ho addentato nei pressi di un giardino pubblico. Durante il mio pasto eremitico ho immaginato di essere un animale in cattività che divora la sua preda, ma forse mi sarei avvicinato di più alla realtà se avessi raffigurato me stesso come un uomo che riesce solo ad approvvigionare il suo riflesso. Farcisco le ore piccole con eventi di poco conto perché non ho di meglio a mia disposizione e cerco di farmi bastare ciò che riesco a raccogliere dalla mia capacità di provare emozioni. La mia veglia notturna non ha i colori né i rumori de “La Dolce Vita”, ma assomiglia a una lunga marcia introspettiva. Quando cammino da solo i miei pensieri si accavallano e talvolta il loro peso rallenta il mio incedere, ma non accetto che qualcosa di intangibile mi schiacci e mi oppongo fermamente a quella di parte di me che cerca una forma abietta di conforto nella contemplazione della tristezza. La mia polarità è positiva.
Il cuore della notte smette di battere e la coscienza si spoglia di ogni giustificazione. La propria identità si rivela chiaramente accanto a una luce fioca o nell’uniformità del buio. Qualsiasi stratagemma consolatorio cade e gli occhi sono costretti a vedere tutte le cose davanti alle quali si sono sottratti in un primo tempo. Il sapore delle proprie decisioni cambia radicalmente e ogni sofisma perde i suoi effetti ansiolitici. Il responsabile di se stesso nota su ogni atomo il riflesso delle motivazioni reali che lo hanno portato a compiere determinate scelte. Ogni scusa artificiosa volge le spalle al suo creatore e non proferisce parola. Bastano otto ore di sonno per tornare a credere fermamente nelle proprie menzogne, ma nulla può cancellare le confessioni silenziose della personalità. La realtà individuale viene alterata al di sopra del bene o al di sotto del male in modo che diventi sopportabile per il suo proprietario, ma questa contraffazione morale può essere evitata e qualora il coraggio abbondi lo si può usare come propellente per spingersi nella ricerca spasmodica di un brandello di oggettività. Non è semplice proiettarsi verso qualcosa che non offre una ricompensa e la sofferenza di questo processo sembra tanto insensata quanto intollerabile, ma credo che la possibilità di addolorarsi o di adorare autenticamente sia una delle più grandi conquiste interiori a cui l’essere umano possa ambire. Le religioni e le ideologie sono le caricature delle loro promesse, ma non bado a chi mette le carote davanti agli asini e procedo sulla linea del tempo senza frapporre tra me e la mia fine delle utopie antropomorfiche.
La trappola della tranquillità apparente
Pubblicato mercoledì 19 Settembre 2007 alle 15:08 da FrancescoTrovo che sia inquietante il modo in cui il microcosmo di un individuo possa stravolgere la percezione di ciò che lo circonda. Un osservatore esterno può notare quanto siano radicate le convinzioni di un suo simile e può constatare quanto tali convinzioni siano in grado di ridurre pericolosamente la realtà a un elemento accessorio. Le idee talvolta si inerpicano più di quanto dovrebbero per coprire i vuoti lasciati dalle mancanze emotive e creano una vegetazione così fitta attraverso cui la percezione di ogni accadimento riesce a filtrare solo parzialmente. Ritengo che sia inquietante l’attenzione morbosa che taluni riservano agli interessi che sono in grado di deviare il loro pensiero dalla contemplazione delle mancanze affettive. Oltre a questo atteggiamento di difesa penso che si possa scorgere un comportamento antitetico e credo che quest’ultimo mi riguardi. Qualcuno tenta di nascondere le reali condizioni della sua esistenza e qualcun altro, come me, insiste tenacemente sull’analisi e la descrizione della propria vita alla luce del sole. Trovo che entrambi i casi non portino risultati soddisfacenti, ma credo che il secondo presenti qualche spiraglio in più del primo a patto che non si atrofizzi con la speculazione intellettuale della propria condizione. Presumo che questo processo si possa realizzare solo attraverso un’autocritica e un’analisi di sé tanto ferree quanto sincere e ritengo che solo il diretto interessato possa esserne artefice; escludo a priori la validità di qualsiasi intervento esterno e lo connoto come un semplice atto di vanità di qualche aspirante samaritano. Suppongo che la modificazione degli attributi della propria vita possa avvenire solo empiricamente e immagino che la riflessione sia in grado unicamente di affinare gli strumenti con i quali agire concretamente su se stessi. Nel cambiamento d’essere credo che il tempismo giochi un ruolo fondamentale: ogni mossa a tempo debito.
Trascorsi l’infanzia a osservare le condotte degli adulti e con l’orecchio captai le prime dissonanze sulle quali cominciai a riflettere tra i succhi di frutta e le pubblicità della Mattel. Imparai l’ambiguità dei triangoli prima che mi venissero impartite lezioni di geometria e fu grazie alla mia curiosità che scoprii i tre vertici di una trasgressione banale: un padre, sua moglie e un’amica di quest’ultima. Osservai i vizi capitali di alcune damigelle e provai una forte repulsione verso le loro abitudini malsane. Iniziai a studiare il malessere di coloro che avevano preceduto la mia nascita e ne feci tesoro per gli anni seguenti. Quando appresi le aberrazioni comuni delle persone normali diventai schivo e sfiorai la misantropia più volte prima di assumere il controllo di me stesso. La mia inesperienza disseminò paure ridicole dinanzi al mio cammino e io persi tempo di fronte alle loro ombre burlesche. Cercai un’identità tra gli stereotipi, ma non riuscii a indossarne nemmeno una e mi avvicinai al vuoto per la sua mancanza di attributi: lo reputai un ottimo punto di partenza e non me ne pentii. Sfuggii dall’avvento dell’edonismo nocivo ed evitai di finire in un suo gulag. Mi rifugiai nel silenzio e rimasi nel mio eremo fino a quando le tendenze all’autodistruzione non abbandonarono i confini delle mie regioni encefaliche. Nel corso dell’assedio emotivo studiai alcune mappe frammentarie per ripiegare verso la mia evoluzione e quando le ostilità cessarono io iniziai a seguire la linee oblunghe che avevo tracciato con un compasso temporale sul piano dello spazio.
Prima o poi V. mi telefonerà di nuovo nonostante le abbia chiesto di non farlo più e quella notte, per la prima volta, la insulterò pesantemente. Ogni mio addio nonostante le incertezze iniziali deve durare tutta la vita come un mutuo inestinguibile. Quando conobbi V. le dissi subito: “Noi non potremo mai essere amici, ricordatelo”. Per me non è stato facile allontanarmi da V. ma non avevo altra scelta. V. non è una stupida e possiede un cervello funzionante. Un anno fa durante una sua telefonata inaspettata mi disse: “Sai, forse sapevo dall’inizio come sarebbero andate le cose”. Anch’io lo sapevo ed è per questo motivo che ne ho cercato la conferma prima di accettare la realtà. Mi è rimasta impressa una cosa che V. mi ha detto circa un mese fa nel corso della nostra ultima conversazione: “Tu hai conosciuto la mia parte migliore e non capisco perché tu veda in me qualcosa di buono, io non mi sento così”. Ho buttato molti nomi nella foiba del passato e ogni tanto mi chiedo se sia stato giusto. Non voglio rapporti annacquati e preferisco prolungare gli insegnamenti della solitudine piuttosto che arenarmi sull’ipocrisia di un sentimento modificato artificialmente. V. è scomparsa dalla mia esistenza per sempre nonostante il suo nome appaia ogni tanto tra queste pagine di cui lei non conosce l’esistenza. Penso che la forza del proprio carattere stia anche nell’accettare la morte di qualcuno che è ancora in vita per non scendere a compromessi con i propri sentimenti. Non è semplice lasciarsi le persone alle spalle, ma forse è l’unico modo per valorizzare chi rimane al proprio fianco e finora solo la mia volontà mi è restata vicina, perciò lode a lei e alla sua devozione.
Nei prossimi giorni riprenderò ad allenarmi fisicamente per aumentare ulteriormente la mia muscolatura al fine di completare l’opera corporea che ho incominciato due anni fa. A breve la signora a cui appartiene la vagina dalla quale sono uscito mi donerà un’auto usata con il cambio automatico, perciò in futuro mi metterò alla guida per seguire qualche strada che porta da qualche parte. Integrerò le mie escursioni su due ruote con l’aumento dell’allenamento pesistico e ammanterò il mio ozio con una valenza ricostituente. Mi prenderò qualche altro giorno per riprendermi completamente dal jet lag e poi mi immergerò nuovamente nell’incanto salutare dei miei itinerari ciclistici. Terrò a mente quanto mi ha detto il luminare statunitense che ho incontrato due giorni fa a Seoul: “Ciò che puoi ottenere dalla tua vita dipende dall’interazione dei tuoi emisferi”. Transiterò nel mio tempo e affinerò il mio modo di viverlo: lo farò per obblighi biologici, per curiosità prenatale e per un sentimento di profondo affetto nei confronti dell’esistenza. Quando il mio entusiasmo si assopirà io lo lascerò riposare con indulgenza materna. Nuovi fallimenti bruceranno nella mia atmosfera, perciò non riusciranno a provocare crateri sulla mia interiorità.
Non lascio che l’aspetto minaccioso della vita mi inganni e non sono disposto a deporre il mio respiro. Rivendico ancora una volta il mio cazzo di diritto a vivere. Prendo sempre la sofferenza di petto anche se mi faccio male e ogni volta corro il rischio di cadere in un baratro senza fine. La mia forza di volontà è così grande che sfugge al mio controllo. Non ho speranze a cui aggrapparmi né voci amiche da ascoltare, ma combatto da solo sulle alture della realtà perché non amo i rifugi onirici. I miei fallimenti vogliono farmi diventare un cinico e un pezzo di merda, ma non ci riescono perché conosco i loro trucchi. I miei sentimenti sono immacolati e splendono ancora come il giorno in cui li ho ricevuti in dono dalla mia ragione. Qualsiasi dolore che provo non fa che ingigantire la mia capacità di amare e mi stimola ad andare avanti. Quando supero un brutto momento mi faccio una tacca sull’anima e dopo un pianto catartico ci verso qualche lacrima notturna per impregnarla di valore emotivo. Le proposte di un paradiso futuro le brucio nell’indifferenza e rinnego ogni dottrina che vuole strapparmi comodamente dalla lotta contro il malessere. So di cosa ho bisogno e so anche che non mi spetta di diritto, ma non ci rinuncio e continuo la mia corsa contro il tempo. Ho sopportato anni di isolamento, ho ascoltato i rifiuti delle regine, sono stato rinnegato e dimenticato, ma la cosa peggiore che mi sia successa è stata la compassione saltuaria che ho provato per me stesso. Ho superato momenti di parossismo indicibile senza l’ausilio di nulla e nessuno. La mia schiena è ancora intatta nonostante le delusioni abbiano tentato di frantumarla. Vaffanculo, io sono vivo perché sono in grado di amare.
Quando sono molto abbattuto guardo questo vecchio video di Gary Moore e mi sento un po’ meglio. Penso che nessuno abbia mai espresso tanto chiaramente e semplicemente cosa si prova nelle stanze vuote dove si impara a vivere senza amore. In questo pezzo trasuda una sensibilità maestosa e sincera. È incredibile come nove parole riescano a spiegare una delle sensazioni più lancinanti dell’animo.
Quanto è vero?
“You hope that she will change her mind
But the days drift on and on
You’ll never know the reason why she’s gone”.
È verissimo.
Mi osservi di nascosto perché l’orgoglio non può sporgersi più di tanto. Le parole che non ci doniamo a vicenda restano appese al silenzio. Nessuno di noi compie il primo passo perché entrambi crediamo che possa essere l’ultimo e attendiamo vigliaccamente che il tempo calmi le acque per affogare nell’indifferenza. Siamo muti e distanti, ma in realtà vorremmo leggere il nostro labiale a occhi chiusi. I nostri pensieri viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e non abbiamo potere su di loro né sulle loro evoluzioni acrobatiche. Fingiamo che il nostro regno sia un castello di carte, ma in realtà non è mai apparso nulla di più adamantino delle nostre incertezze simbiotiche. Un triangolo con un punto interrogativo per ogni vertice rappresenta la perfezione della nostra stupidità. Non vogliamo che la somma dei nostri giorni giaccia nel nulla, ma non muoviamo un dito per accarezzare il pensiero di tornare in auge. L’entusiasmo è evaso e il risentimento ci ha preso in ostaggio. Siamo le parti mancanti di un problema reciproco, ma non riusciamo a capirlo e ci ostiniamo a patire. Ingrandiamo le nostre delusioni perché sono l’ultimo ostacolo che si frappone tra noi e qualcosa che non ha nome né forma. Abbiamo ascoltato la cattiva consulenza dell’impulsività e abbiamo rifiutato un processo equo. Un errore ci ha giustiziato e poi è scomparso insieme alla causa della nostra morte. Cucirò un monogramma sulla mia aorta se torneremo a vivere e sarà una elle: la elle di Lazzaro.