Ieri la mia prima lezione di guida è stata rimandata a oggi. Mi sono svegliato alle cinque di mattina, ma sono rimasto a letto fino alle sette. Amo svegliarmi presto e restare tra le coperte a contemplare le inezie della mia vita. Anche stamane mi sarebbe piaciuto avere qualcuno accanto a cui dare un buongiorno intimo, ma mi sono svegliato proprio come mi sono addormentato: da solo. Che strana casualità! Qualche minuto fa il mio stomaco ha fatto incetta di kiwi, perciò presagisco la venuta di una cacata abbastanza ingente nell’arco delle prossime ore. Ho la finestra aperta: sento i moti dei veicoli e le voci degli studenti che percorrono la via crucis per la scuola. Il volume delle mie casse è abbastanza alto, il subwoofer sbuffa e i tweeter elargiscono le note funamboliche di “Black Utopia”, un album progressive metal strumentale di Derek Sherinian datato 2003. Per me non è facile descrivere ‘sto disco perché ogni volta che ci provo mi fermo a imitarne i virtuosismi come un quindicenne esaltato degli anni ottanta con gli Iron Maiden in cuffia. Si è alzato il vento e ne sono felice, sono un bimbo dispettoso che ama vedere Eolo incazzato nero. In realtà il vento mi ricorda il piacere di alcuni pomeriggi nuvolosi della mia infanzia e per questo motivo gradisco le giornate ventose con quache nube di contorno, possibilmente precedute da una breve pioggia per esaltare l’aroma del loro grigiore caleidoscopico. Perché grigiore caleidoscopico? Perché, e lo scrivo con lo stesso incipit che si usa alla scuola elementare, il grigiore di una giornata apparantemente cupa può nascondere molte sfaccettature: alcune bellissime, altre più cupe della stessa giornata.
La metropolitana è un purgatorio dove anime scontrose si illudono di guidare il loro destino; lui lo sapeva, per questo manteneva sempre un contegno decoroso quando si trovava nelle viscere del Caronte metallico. Aveva imparato l’indifferenza, quella stessa indifferenza che gli occhi urbani hanno congenita. Stava tornando a casa mentre la città si vestiva di nero e di grigi orpelli. Il ciclo continuo delle cose lo aveva reso immune a qualsiasi spiraglio vitale, era un nuovo soldato dell’esercito della mestizia architettonica, reclutato dopo anni di addestramento sul campo della vacuità urbana. Se solo si fosse chiesto per quale motivo continuava a vivere si sarebbe ucciso immediatamente, come molti altri d’altronde. Preferiva non farsi domande e intrattenersi in un colloquio passivo con il tubo catodico come faceva ormai dal suo primo giorno di reclutamento urbano. Lavorava come contabile in una piccola società. Guadagnava. Sì, guadagnava abbastanza per mantenere il suo appartamento anonimo e quel gatto sconosciuto legato a lui solo da vincoli di sussistenza felina. Da alcuni giorni qualcosa era cambiato in lui, non capiva per quale motivo ma un forte dissidio interiore faceva capolino dalla sua anima meccanica. Vedeva sovente tossici e barboni al ritorno verso casa, si chiedeva come potessero esistere e resistere. Non aveva risposta. Quell’interrogativo sull’esistenza di uomini in simbiosi con la morte aveva fatto nascere in lui un interrogativo ben maggiore sul proprio essere. Cosa lo differenziava dagli eroinomani e dai clochard, d’altronde anche lui conduceva una vita che non desiderava, un’esistenza meccanica che danzava al ritmo di freddi documenti e numeri in tinta unita. Il sole stava scomparendo e i suoi ultimi raggi vedevano morire la speranza di filtrare attraverso i fumi chimici. Progressivamente l’urbe andava illuminandosi artificialmente e le strade iniziavano il loro riposo notturno. Il protagonista della mia storia quella sera non aveva voglia di rimanere nella sua cella a pigione e decise di uscire nel freddo buio novembrino. Percorse una lunga via, opposta a quella che seguiva la mattina per andare a lavoro. Alla sua destra si innalzava l’autostrada mentre a sinistra edifici tutti uguali lo guardavano dall’alto del loro grigiore. Passo dopo passo lasciava dietro di sé metri e metri di marciapiede illuminati dalle perpendicolari luci arancioni dei lampioni immobili. Sentiva continui rumori provenire là dove la sua vista non arrivava, non erano rumori anormali, ma semplici e comuni decibel serali che assumevano un altro aspetto nella sua mente, prendevano le sembianze di reminiscenze e di ricordi confusi; tempi passati che salivano come una spirale di spavento. Ora aumentava il passo, ora lo diminuiva, seguiva il ritmo del suo udito ipocondriaco. Dopo circa un chilometro in questa danza con il passato decise di svoltare ad un angolo per avviarsi verso la metropolitana. Scendendo le scale l’errata intermittenza del neon illuminò la sua iride e un getto d’aria calda fece contatto con le sue sinapsi. Si fermò per ardere una dose di nicotina; una prima boccata e il suo viso uscì dalla nuvola di fumo appena formatasi e già sparita nell’etere come alla chiusura di un sipario. Scese le ultime gradinate che portavano alla fermata della Linea B e scorse due ragazzi. I giovani gli si avvicinarono squadrandolo con cattiveria. I due si fermarono, si guardarono un secondo e poi proseguirono verso di lui. Nella tasca destra del suo pastrano economico teneva sempre delle forbici con le quali sistemava la difettosa stampante dell’ufficio; mise la mano nella stasca sinistra e tirò fuori un temperino, lo aprì velocemente con abile manualità e sferrò un fendente al collo del ragazzo più vicino prima che questi potesse chiedergli un’informazione. Aveva lo sguardo alienato ed era rimasto tremante nella posizione finale con cui aveva reciso la giugulare al giovane; il ragazzo era in terra, agonizzante, emetteva lamenti che sembravano latrati spezzati mentre l’amico era immobile e solo il suo sguardo riusciva a muoversi facendo la spola dal lago di sangue alla lama del temperino. Non vi era rumore, tutto sembrava essersi fermato, ma non era una sensazione perché in realtà tutto era fermo. Si udivano silenzi profondi che erano veramente puri solo quando i gemiti si arrestavano per pochi secondi. Irruppe un rumore forte, progressivo e violento; tutto si arrestò di colpo. Le entrate del Caronte metallico si aprirono, lui mosse solo il capo e poi volgendo il corpo entrò nella metro con il temperino ancora alla mano. Una vecchia con un bambino e tante buste si allontanò alla sua vista, ma lui non ci fece caso e si sedé lentamente osservando il vuoto con sguardo immobile. Iniziò a ridere pacatamente, subito dopo chiuse la sua arma di fortuna e la ripose in tasca come nulla fosse. Il motivo della sua ilarità era legato alla comprensione dei gesti dei due ragazzi alla fermata: non avevano cattive intenzioni nei suoi confronti. Ciò che lo faceva ridere ancor di più era il fatto d’averlo capito prima di sferrare il colpo mortale alla giovane vittima. Non rideva perché era un sadico, ma perché era un contabile omicida. Il Caronte stava rallentando perché era prossimo all’ultima fermata mentre lui mutava lo sguardo e i pensieri. Stava realizzando di essere diventanto un ingranaggio difettoso nella macchina sociale che aveva servito con zelo per diciassette anni. Un momento di paura e un’azione esagerata avevano segnato la sua fine come uomo, non era più un soldato dell’esercito urbano, ma era diventato membro ad honorem della resistenza dei dannati, dei derelitti, compagno di coloro che spesso facevano sorgere in lui la domanda di come potessero esistere e resistere. Adesso avrebbe risposto a quell’interrogativo con il resto della propria esistenza. Repentinamente si svegliò da una sorta di stasi mentale grazie all’aprirsi delle viscere del Caronte metallico che davano sull’ultima fermata, esattamente dalla parte opposta della grande città in cui viveva. Uscì e si guardò attorno, la vecchia con il bambino che prima si era allontanata da lui lo scorse di nuovo ed emise un breve grido portandosi il pugno chiuso alla bocca, poi fece cadere una delle buste e senza mai distogliere lo sguardo da lui afferrò l’involucro fallendo nei primi tentativi di presa, infine si dileguò velocemente guardando spesso dietro di sé. Lui aspettò che la vecchia si fosse allontanata e poi si diresse anch’egli verso l’uscita. La notte iniziava la propria pubertà e quest’oggi aveva un nuovo figlio, un uomo un tempo dabbene e ora omicida senza meta. Una volta uscito dalla metropolitana e dopo aver camminato per un po’ iniziò a inalare gli odori nauseabondi delle fogne, così forti che lo penetravano a fondo, fino all’anima. Non aveva nulla da offrire alla notte se non i propri peccati e i silenziosi vaneggiamenti che lo cullavano in una qualche forma di triste illusione sul suo futuro. A un tratto si fermò davanti a una saracinesca chiusa solo a metà, vi si appoggiò con la schiena e tastando il pastrano mise mano al portafogli. Al momento aveva un po’ di contante e il fedele bancomat sul quale effettuava versamenti puntuali da anni e che per la prima volta nella sua vita si sarebbe reso utile al fine di dare inizio all’imminente ridda di sensazioni dannate. Presto un ago lo avrebbe iniziato ai piaceri sintetici, sapeva dove andare e come ottenere il kit della soluzione liquida, ma non sapeva dove trovare un bancomat nelle vicinanze. Iniziò a girovagare senza capire se era già passato nel posto in cui si trovava, era confuso e a tratti incapace di distinguere il cielo dal selciato. Dopo continui giri tra auto dormienti e segnali ammiccanti vide una luce fioca, deboli raggi illuminavano un tastierino numerico e presentavano in pompa magna un sottile ingresso simile a quello per le schede telefoniche. Trasse il bancomat e rimase stordito per alcuni secondi dal suo stato confusionale, poi fece per andarsene, ma appena riaffiorarono in lui le proprie intenzioni si risolse a prendere il denaro. Avrebbe voluto prendere tutto ciò che possedeva sul proprio conto, ma dovette accontentarsi solo della massima cifra erogabile, tuttavia non indifferente. Mise nelle tasche i preziosi e nobili fogli di carta con fare rapido e grezzo, come se li avesse rubati. Il suo portamento oscillava tra il goffo e il circospetto, la sempre più rara lucidità che faceva breccia nella sua mente lasciava spesso il posto a un’oscura alienazione mentale. Il tempo si squagliava lentamente e questo gli dava modo di raggiungere con tutta calma un ragazzo che conosceva di vista. Il personaggio al quale stava per andare a far visita era un piccolo spacciatore che anni addietro aveva vissuto nel suo stesso quartiere e per questa ragione lui lo conosceva, non molto, ma quanto bastava per procurarsi una spada. Arrivò ai piedi di un condominio e iniziò a battere il pugno sui tasti del citofono. Qualcuno aprì il portone sicuramente per sbaglio e lui pur essendosene accorto continuò a battere forte al suono delle imprecazioni di alcuni inquilini. Dopo essersi risolto a entrare prese l’ascensore e arrivato al settimo piano scese le scale per raggiungere il quarto pianerottolo. Tirò su con il naso e nello stesso momento colpì le sue narici con il pollice destro, poi con nonchalance picchiò forte sulla porta davanti alla quale si trovava. La porta venne aperta e apparì una figura trasandata, vestita con una maglietta bianca e dei boxer. Vi fu un breve dialogo che non riporterò, occhiate e mimiche facciali che lascio all’immaginazione e altri dettagli che potrei riportare con una descrizione certosina solo se stessi scrivendo un racconto. Se qualcosa di importante vi è in questa narrazione ampollosa è il fatto che dopo una ventina di minuti lui venne fuori con un buco sul collo e una serie di ammenicoli in tasca che spesso ornano gli scaffali polverosi dei depositi della polizia. Era chimicamente appagato e aveva un’altra cartuccia da spararsi più tardi. Era nuovamente sulla strada, lattine vuote e bicchieri di plastica venivano trasportati da un vento gelido che si era appena alzato, luci bianche e diafane illuminavano un piccolo piazzale colmo di mozziconi. Stava portando la sua carcassa verso il porto, ma le banchine distavano ancora molto. Giunse in un vicolo buio in cui echeggiavano perpetue gocce cadenti di panni stesi al plenilunio. Uscì dal vicolo e notò alla sua destra un’auto; vi era una macchina della polizia di fronte ad un Bar che stava per chiudere. Volse lo sguardo a sinistra e si mosse verso destra. I suoi occhi s’incrociarono con quelli di un uomo in divisa blu. I due continuarono a compiere le proprie geometrie e a scrutarsi per alcuni secondi senza proferire parola. I due poliziotti salirono in macchina e lui proseguì avanti. Gli abbaglianti della gazzella illuminarono la sua schiena fino ad accecarla. L’auto gli si affiancò procedendo a passo d’uomo e una voce giovane e forte gli chiese cosa cazzo stesse facendo da quelle parti. Lui si fermò e il poliziotto alla guida arrestò l’auto, spense addirittura il motore e i fari. Il buio e il mutismo umano regnarono per tre secondi dopodiché una chiamata fece rimettere in moto le quattro ruote della giustizia che si allontanarono con celerità. Lui riprese a camminare toccandosi il foro sul collo attraverso cui aveva fatto penetrare un po’ di piacere. Ancora strade e muri addobbati con manifesti litiganti che si trovavano l’uno sopra l’altro. Egli notò un panificio in un vicolo e vi si avvicinò silenziosamente, davanti alla porta della bottega c’era del pane caldo all’interno di casse di plastica bianca. Il padrone vide il mio protagonista, gli chiese se desiderasse qualcosa e lui disse che voleva del pane arabo. Il negoziante annuì e si recò nel retrobottega con un portamento esperto, i suoi erano movimenti che denotavano anni passati a portare pane arabo ad acquirenti notturni. D’un tratto lui, il protagonista senza nome, uscì, prese una cassa di pane, si allontanò per alcuni metri e si rifugiò in un vicolo. Intanto il panettiere era tornato con in mano un sacchetto con del pane arabo, aveva lo sguardo basso e, non accortosi che il lunatico cliente non c’era più, disse il prezzo. Il fornaio alzò lo sguardo, capì, e la farina bianca continuò a cadere leggera dalle sue ciglia altrettanto canute. Nel vicolo dove il nostro protagonista aveva portato il pane vi era un silenzio tombale e puzzo di merda. Non toccò il pane e con un gesto di stizza alzò la cassa sopra la propria testa per far cadere quelle sculture di lievito, acqua e farina. Lanciò la cassa di plastica contro un muro, gettò un po’ di monete e banconote a terrà e se ne andò. Si accese la luce di una stanza nel palazzo di fronte al quale egli aveva gettato i pani e da una tenda ricamata con motivi banali apparve un viso rugoso che scrutò la strada; pochi secondi ancora e quella curva nella continua e veneranda linearità dell’anziana bipede sarebbe divenuta passato. Egli probabilmente non si rendeva conto di ciò che faceva, o si potrebbe ipotizzare che solo una parte del suo essere avesse coscienza delle proprie azioni. La parte lucida dell’Ego era il luogo pieno di frustrazioni e risentimenti, di occasioni mancate e mancanti; o più semplicemente non amava né i panettieri né il loro pane. Sicuramente da qualche parte una candela ardeva tremula e così il tempo continuava a liquefarsi rimanendo sempre distante dalle porte dell’alba. Non sembra essere una storia convincente pur essendo vera. O falsa. Vi è una mancanza di situazioni intriganti e di personaggi carismatici, sono presenti solo descrizioni astruse ed episodi irrazionali che avvengono solo nella realtà. Maurizio chiuse gli occhi e li riaprì rapidamente. Raggiunse l’inizio di una strada che scendeva ripida; era una strada senza uscita, come il labirinto della sua vita e come la costruzione di questo racconto.
Questa mattina metterò il mio completo buono, una felpa della Nike di tre anni fa e un paio di pantaloni scoloriti, poco prima delle undici uscirò di casa e mi recherò dal mio istruttore di guida. Oggi hanno inizio le mie lezioni di pratica e sono contento di mettere le mani sul volante per la prima volta. Non ho mai avuto l’occasione di utilizzare il foglio rosa per allenarmi con l’auto di mia madre, quindi sono perfettamente estraneo al controllo di quell’ammasso di lamiere. Vivo il conseguimento della patente B come un gioco e ciò che più mi interessa è divertirmi durante le mezzore di guida che mi attendono nel corso di questo mese. Per me la patente non è fondamentale perché non lavoro né necessito di recarmi in posti dove non arrivano i mezzi pubblici. Per spostarmi mi sono sempre avvalso degli autobus, dei treni e, nei grandi centri, della metropolitana. Mi piacciono molto i mezzi di trasporto che un tempo erano appannaggio della pubblica amministrazione perché sono un esempio eccellente dell’eterogeneità della fauna urbana: immigrati, signori in doppio petto, donne provocanti, suore, poliziotti, gruppi di ragazzini dediti al vandalismo, clochard e pendolari di ogni razza. In alcune occasioni può essere frustrante sentirsi intrappolato nella calca della metropolitana capitolina, che in certi casi è composta da odori forti ed eccessivi che provengono dalle carni sudate dei passeggeri, dai lamenti di certe vecchie signore che fuoriescono, forse, dall’incapacità di accettare la loro età, e da alcuni rom che suonano motivetti irritanti, ma ai quali non si può negare un euro di elemosina a causa della loro enorme simpatia. La mia memoria conserva i rumori dell’obliterazione dei biglietti e la sensazione afosa delle correnti calde di ogni fermata del Caronte metallico. L’ultima frase mi ha riportato alla mente un racconto che ho scritto qualche anno fa e che pubblicherò più tardi su queste pagine dopo averlo corretto entro i limiti della mia padronanza linguistica. Sono le sette e un quarto, e la giornata promette ore serene; per me è tempo di continuare a ingannare il tempo.
Quindici anni fa vivevo in campagna e durante l’estate giocavo con i figli dei vicini. Ricordo le partite a calcio e i fiori decapitati a pallonate. Ho provato paura durante quelle sere estive perché temevo che una stella cadesse sulla Terra e la distruggesse. Immaginavo scenari apocalittici con la fantasia di un bambino e passavo i pomeriggi davanti alla televisione a guardare i cartoni animati e i telefilm su Canale 5 e su Rete 37. Ricordo con piacere Ken Il Guerriero, Holly & Benjy, i Transformers, GI Joe, He-man e i Cinque Samurai. Mi piacevano i soldatini e svolgevo regolarmente dei raid aerei sopra i formicai del mio giardino. Erano momenti colmi di spensieratezza. Oggi ho inevitabilmente più consapevolezza del mondo che mi circonda, ma ogni tanto riesco ancora a comportarmi e ad assimilare i fatti come quel bambino dedito alle grandi manovre con bombardieri e soldatini di plastica. Credo che sia importante mantenere un contatto con la propria infanzia per tutta la vita. Ho notato che il tempo e l’acculturazione, di qualsiasi livello sia quest’ultima, tendono a ridurre drasticamente il numero di occasioni nelle quali le persone riescono a sorprendersi. Per me è fondamentale la capacità di meravigliarmi senza ingenuità e per farlo a quasi ventidue anni ho bisogno di restare connesso con la prima fase della mia vita, senza che il collegamento con l’infanzia mi porti a comportamenti infantili tipici di tanti adulti. Concludo e mi dedico alla bevuta di un po’ d’acqua.
Non sono in grado di interpretare i miei sogni, ma talvolta tento di farlo ugualmente. Alcune volte ho degli incubi, altre volte dei sogni erotici che spesso fanno da preludio alle polluzioni notturne. È da molto tempo che nei miei sogni non appaiono più le persone con le quali ho rotto i ponti e credo che ciò indichi la loro scomparsa dalla mia interiorità. Adoro immergermi nel mare onirico del mio stato di incoscienza senza preoccuparmi degli effetti collaterali: piacere o angoscia, dolcezza o terrore. Vorrei essere in grado di sognare ogni volta che cado dormiente. Se fossi nato negli anni sessanta avrei trascorso i pomeriggi ad ascoltare la voce rauca di Janis Joplin e avrei usato molta mescalina per procurarmi allucinazioni. Purtroppo vivo nel secondo millennio, il peyote non è più di moda e io non faccio uso di droghe. Se fossi un chimico mi dedicherei all’invenzione di una droga priva di controindicazioni. Non credo che la tossicodipendenza possa essere sconfitta, pertanto penso che l’industria farmaceutica debba iniziare una ricerca su un tipo di droga in grado di non compromettere le funzioni vitali dell’organismo umano. Gli introiti derivati da questo ipotetico narcotraffico legale potrebbero prosciugare le tasche della criminalità organizzata, potrebbero permettere investimenti maggiori nella ricerca per la cura delle malattie più gravi e potrebbero incrementare lo stato di salute della popolazione terrestre. Mi rendo conto che le ultime righe sono pura fantascienza, ma le trovo coerenti con l’aspetto onirico di questo breve scritto.
Bogdan, il mio amico rumeno, sta per tornare in Italia. Purtroppo non lavorerà a Orbetello, ma a Roma. Il suo arrivo è previsto per la prossima settimana. Lo raggiungerò nella capitale e manterrò la promessa che gli ho fatto cinque minuti fa al telefono: offrirgli il pranzo a un ristorante cinese. Bogdan, che io chiamo Bodo, è un ragazzo dell’Est nato un anno dopo di me, nel 1985. Quando siamo insieme parliamo un idioma formato da termini inglesi, italiani e rumeni. Sono passati tre anni da quando ho conosciuto questo ex cercatore di un permesso di soggiorno. Ricordo le ore estive passate con lui nella stanza dalla quale sto scrivendo. All’inizio non lavorava e trascorreva la maggior parte del suo tempo a casa mia: mi dava lezioni di rumeno infruttuose, mi raccontava aneddoti della sua vita in Romania, a Bacau, mi descriveva la sua ragazza, Corina, e mi narrava, forse accentuando un po’ i toni, le gesta della sua banda di strada: gli Zimbru. Da una parte ci sono io, figlio dell’Occidente, dall’altra c’è Bodo, figlio adottivo della politica di Ceausescu. Non mi rimane che scrivere “multumesc Bogdan”.
Ho ascoltato le conversazioni di alcuni ragazzi e ho fatto fatica a trattenere le risate. Questi omuncoli parlavano delle loro relazioni con il gentil sesso, si vantavano di presunte conquiste e di penetrazioni profonde. La logica su cui si basa il loro ragionamento è atavica: un ragazzo che fotte molto è un giusto, mentre una ragazza che divarica spesso le gambe è una mignotta. Credo che questa visione dei due sessi sia semplicistica. Penso che una femme fatale scopi e non si limiti a farsi scopare. Con la frase precedente intendo affermare che solitamente il maschio è considerato la parte attiva in un rapporto sessuale, ma questa visione del maschio come elemento attivo, e quindi della femmina come elemento passivo, spesso viene tratta solo dalla prospettiva fisica con la quale taluni guardano il coito. Uno dei due ragazzi di cui sopra si lasciava andare a frasi colme di entusiasmo e di pathos: “Zac, l’ho infilata!”. Trovo insicuri coloro che necessitano di vantarsi delle proprie chiavate. Per me talvolta è la femmina, con i suoi movimenti e la ricerca delle posizioni a dettare il ritmo al maschio e credo che in questi casi sia l’uomo a essere chiavato anche se questo non si verifica in termini fisici. Non ho mai visto una donna nuda nella realtà eccetto mia madre che avrei preferito non scorgere senza veli. Non penso che mia madre sia una brutta donna per la sua età, ma non è il mio tipo nonostante il complesso di Edipo mi abbia portato a fantasticare anche su di lei. Forse in futuro passerò in rassegna le mie fantasie erotiche di ex adolescente.
Ho l’impressione che le leggi italiane siano eccessivamente tolleranti nei confronti dei reati penali più gravi. Ad esempio non comprendo come mai non sia ancora stata introdotta la castrazione chimica per gli stupratori come deterrente per le violenze sessuali. Forse occorrono più legislatrici e meno legislatori? Mi pare che anche la lotta alla mafia soffra di un vuoto legislativo. Forse occorre spezzare i legami tra mafia e politica? Credo che l’Italia sia un paese con un alto tasso di omertà. Tutti conoscono gli introiti delle organizzazioni criminali italiane e sanno, o dovrebbero sapere, quanto essi possono incidere sul PIL. Spesso i cittadini sono conniventi con la criminalità e il loro beneplacito non può essere biasimato perché lo Stato non offre sempre un’alternativa. Le pene detentive talvolta sono ridicole. Vorrei che il 41 bis fosse esteso a molti altri reati e mi piacerebbe che venisse introdotta la pena di morte per gli esponenti delle organizzazioni criminali, che come molti sanno, spesso e volentieri riescono a gestire i loro interessi anche dal carcere. Penso che le persone siano illuse di vivere in un’epoca civile, ma credo che questa era sia solo l’alba di un nuovo tempo. Ritengo che la civiltà sia ancora lungi dal venire e sono convinto che fino al momento del suo raggiungimento occorra usare il bastone con chi attenta alla libertà individuale dei suoi simili. Trovo che ci sia un garantismo macchiato di sangue che aleggia in alcune aule dei tribunali italiani. Un muratore che ammazza un neonato a colpi di badile non smuove veramente le coscienze, ma credo che provochi solo una grossa audience legata all’efferatezza dell’infanticidio. Sono dell’idea che la tolleranza zero su certe questioni debba essere una prerogativa di chi amministra la giustizia, ma sono consapevole che l’epoca nella quale vivo offre solo buone intenzioni nei momenti in cui la gravità del sistema sociale tocca l’apice degli indici d’ascolto. Forse siamo alle porte di un nuovo tempo, ma credo che manchi ancora molto prima di entrare in un’era di vera civilità. Oggi esiste più empatia nel genere umano, ma mi sembra che le reali differenze tra l’Anno Domini 2006 e il tempo dello spettacolo dei gladiatori stiano solo nella presenza di telecamere che nascondono la loro avidità sotto le mentite spoglie del diritto d’informare. Alla fine me ne sbatto il cazzo di questo circo di carnefici e cameraman. Penso che solo il tempo possa portare una vera evoluzione nelle gesta della mia specie e sono propenso a credere che prima o poi ci sarà un’evoluzione a meno che i miei simili non si estinguano prima con le loro stesse mani.
Ieri sono andato a letto alle sette e mezzo di sera e mi sono svegliato alle due di notte. Non ho fatto nulla di particolare. In questo momento sono chiuso nella mia stanza e non so come intrattenermi. Alla mia destra c’è uno squarcio di cielo censurato dalla persiana della mia unica finestra e alla mia sinistra siede il mio vecchio amico muro, tacito e sornione. Un’altra settimana sta per concludersi senza che sia iniziato nulla di nuovo. Mi trovo sempre a contatto con il mio benessere alienante e continuo ad alimentare le mie giornate con cucchiaiate di apatia. Il mio tempo è intrappolato nell’assenza di concretezza. Credo che mi addormenterò alle otto di sera o forse un po’ prima. Mi piace dormire, ma il mio non è vero riposo perché nella mia vita non c’è fatica. Il mio sonno è un vizio dell’organismo e non un bisogno reale. Tra poco mi laverò i denti e lo farò lentamente, molto lentamente. Mi diverto a guardarmi allo specchio mentre combatto il tartaro con lo spazzolino a cui non ho mai dato un nome. Per me questo è un pomeriggio pachidermico e sereno, ma senza nulla che lo caratterizzi in modo particolare. Nulla procede e nulla s’interrompe. Vado a impugnare il tubetto di Colgate.
Escono bolle di sapone gigantesche dalle finestre degli orfanotrofi. Una luce magenta illumina le cripte mai scoperte dai miei contemporanei. Le lapidi si ribellano alla propria funzione funebre e iniziano a sorridere senza preoccuparsi dell’indignazione dei parenti in lutto. Per le strade marciano colonne di cani randagi tenuti al guinzaglio da un esercito di manichini scioperanti provenienti dalle boutique. Un bambino dispettoso accende e spegne l’interruttore delle ventiquattro ore: ora è notte, ora è giorno. Uomini monchi fanno irruzione nelle chiese dell’intero globo, si siedono davanti agli organi e iniziano tutti a suonare all’unisono la stessa melodia mai sentita prima. Le siringhe di ogni zona periferica si riempiono da sole con una soluzione a base di panacea e attendono l’arrivo dei malati di AIDS o dei loro gerenti. Le banconote chiavano tra loro e si moltiplicano di nascosto nelle tasche di chi ne abbisogna. Vecchi orologiai si alzano dalle loro tombe e incominciano, con attenzione certosina, a riparare gli ingranaggi delle speranze frantumate dalla noncuranza del tempo. La fatica issa bandiera bianca e si arrende alle nuove regole.