8
Mar

Se…

Pubblicato venerdì 8 Marzo 2024 alle 21:16 da Francesco

Se volessi lasciare un segno mi armerei di bomboletta spray e scriverei lettere in wild style su un un muro perimetrale. Se avessi completato il processo d’individuazione lascerei il corpo di mia sponte senza lasciare biglietti d’addio. Se non facessi esercizi di respirazione l’esistenza mi puzzerebbe, ma se fossi cremato sul Gange non sentirei la puzza di bruciato né il rumore delle acque sacre. Se non fossi qui forse non sarei nemmeno altrove. Se avessi fatto certi vaccini forse avrei anticipato la data della mia morte improvvisa.
Se non ci fossero dubbi ci sarebbero certezze, però si possono produrre le seconde a discapito dei primi e se così dev’essere, così sia: amen. Se in questo momento potessi creare qualcosa dal nulla, allora ex nihilo creerei una pizza napoletana con cottura a legno. Se avessi saputo prima determinate cose oggi non avrei motivo di collocarle in un periodo ipotetico. Se domani non avessi niente da fare ripeterei la giornata d’oggi e ne sarei lieto. Se non esistesse il tempo forse non varrebbe la pena inventarlo. Se volessi bene a qualcuno non sarebbe un problema. Se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stata una carriola e se quest’ultimo non fosse stato un classico non l’avrei scritto alla fine.

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16
Giu

Il sé viene alla mente di Antonio Damasio

Pubblicato venerdì 16 Giugno 2023 alle 00:18 da Francesco

Qualche settimana fa ho terminato la gradevole lettura de Il sé viene alla mente, un saggio neuroscientifico in cui Antonio Damasio si avventura in una speculazione volta a rintracciare le fondamenta fisiologiche della coscienza. È un lavoro articolato, certosino, in cui ho trovato una buona esposizione con uno stile potabile, perciò fruibile anche da chi non sia un addetto ai lavori. I miei pochi e sparuti appunti non rendono giustizia al testo.
Nello scritto il sé è presentato come un processo diadico diviso in sé-oggetto e sé-soggetto, laddove il secondo deriva dal primo benché il sé-oggetto abbia una portata più limitata: tra i due vi è continuità e progressione, nessuna opposizione. I concetti di proto-sé (sentimenti primordiali), sé nucleare (relazione tra organismo e oggetto) e sé autobiografico (“pulsazioni” del sé nucleare) sono gli stadi che rappresentano l’ascesa del sé alla mente e quindi la nascita della coscienza.
In merito alla soggettività Damasio nega a quest’ultima un ruolo alla base degli stati mentali, bensì lo attribuisce alla consapevolezza della medesima: per quanto sottile, a me pare una differenza evidente. Le cosiddette percezioni sono indicate come effetti derivanti dalla capacità del cervello di creare mappe (le quali sono tripartite in enterocettive, propriocettive ed esterocettive): tali mappe pare che si originino in strutture subcorticali che risiedono nel tronco encefalico. A corredo di tutto riporto quanto mi ha fatto ridere di gusto per ragioni sulle quali evito di soffermarmi, ovvero l’affermazione inconfutabile secondo cui l’intenzione di sopravvivere che si trova nella cellula eucariotica è identica a quella implicita nella coscienza umana.

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17
Ago

In giacenza presso il presente

Pubblicato mercoledì 17 Agosto 2022 alle 23:30 da Francesco

È un caldo afoso quello che avvolge la sera dalla quale scrivo e nulla sembra poterne ridurre l’impatto in tempo utile per gridare al miracolo climatico. Già che mi trovo al mondo ne approfitto per scrivere qualcosa sebbene io stesso non abbia un’idea precisa da mettere nero su bianco. Se mai avessi avuto delle vere aspettative adesso mi ritroverei nell’età giusta per cominciare ad ammirarne il tramonto, ma non ho nulla né nessuno da utilizzare come feticcio per una nostalgia transitoria. La vita passa e manco la saluto, tuttavia spero che la mia disattenzione non venga intesa come uno sgarbo. Non ho in sospeso debiti di riconoscenza e nessuno né ha nei miei confronti. Le cose da fare potrebbero essere molteplici se solo fossi disposto a raggiungere un livello di stress sufficiente che finisse per farmele disprezzare. Evito per quanto mi sia possibile ogni genere d’impegno che implichi il confronto con la volontà altrui: mi basto per abitudine, per cause di forza maggiore, per comodità e per pigrizia.
Non mi è nota l’ora della mia morte, o perlomeno non mi è stata comunicata né per posta né in sogno, di conseguenza non so quanto mi resti da vivere e non me la sento di azzardare calcoli, inoltre non tiro a indovinare né sotto l’incrocio dei pali, bensì campo per i fatti miei e mi vedo autoreferenziale fino al termine delle trasmissioni sinaptiche. Manca sempre qualcosa anche quando tale impressione risulti assente dalle percezioni, ma poco importa e nulla cambia: per me è fondamentale che io riesca ad accordarmi con il luogo e le circostanze di mia pertinenza. Tutto il resto va da sé, al di là che qualcuno se ne avveda o meno, oltre la testimonianza di ogni coscienza: è così da miliardi di anni e lo sarà per le scomparse venture nei silenzi dei mondi.

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14
Dic

L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta di René Guénon

Pubblicato venerdì 14 Dicembre 2018 alle 16:23 da Francesco

Nel corso degli anni (o, forse, per perduta memoria, dei millenni ) sono già stati molteplici i miei approcci alla filosofia indiana e alla conoscenza vedica, quindi la lettura dello scritto di Guénon ne ha costituito un’ulteriore tappa.
Sulle questioni metafisiche mi guardo sempre da un’assimilazione letterale e tendo invece a trarne delle interpretazioni simboliche che eludano le sterili critiche di possibili pregiudizi. Talora concetti brevi e densi mi elargiscono ampi spunti di riflessione, sebbene nel mio caso tutto ciò si risolva spesso in una contemplazione da cui non pretendo né risposte né ipotesi affinché essa non tradisca se stessa né la sua funzione più autentica.
Guénon mi ha fatto notare una sottigliezza a cui non avevo mai prestato attenzione, ossia che le parti finali dei Veda, le Upanishad, vanno considerate nel doppio significato di conclusione e scopo. Ho anche còlto l’occasione per chiarirmi un po’ le idee su alcuni aspetti di quella che impropriamente e per mera comodità io definisco gerarchia cosmica, almeno così per com’è stata ribadita ed esposta da Adi Shankaracharya: Brahma come supremo ordinatore, Purusha quale sua espressione nell’uomo (e in rapporto a ogni stato dell’essere) e la correlazione di quest’ultimo con Prakriti in quanto conditio sine qua non della manifestazione.
Piuttosto elementare, ma a mio avviso carica di una semplicità parmenidea, ho incontrato una considerazione di carattere ontologico che ha destato il mio interesse: “Ciò che è al di là dell’Essere è metafisicamente molto più importante dell’Essere stesso”. Tra le varie ed esemplari chiarificazioni da parte di Guénon m’è rimasta particolarmente impressa quella sulla natura distruttrice di Shiva, la quale non è fine a se stessa poiché consiste in un’opera di trasformazione.
Paradossalmente in questa visione non dualistica ho appreso però il duplice significato con cui vanno impiegati taluni termini, per esempio il Sé, qui intesto come il principio degli stati manifestati che può essere anche quello degli stati non manifestati dell’essere.

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1
Feb

Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung

Pubblicato giovedì 1 Febbraio 2018 alle 23:52 da Francesco

Durante gli ultimi anni ho letto più parti della produzione saggistica di Carl Gustav Jung ed era dunque una mera questione di tempo prima che approdassi alle pagine della sua autobiografia.
In realtà ”Ricordi, sogni, riflessioni” travalica gli angusti confini di una silloge aneddotica e fornisce una parziale sintesi dei concetti di cui il pensiero junghiano è portatore, difatti alcuni di essi emergono dal testo tramite la rievocazione degli eventi che portarono al loro sviluppo.
Sotto l’aspetto nozionistico non vi ho trovato quasi nulla che già non conoscessi, tuttavia si è rivelata comunque una lettura interessante e l’occasione per un utile ripasso, inoltre vi ho respirato la tensione interiore (non mediata da un linguaggio simbolico, come ne “Il libro rosso”) che accompagnò Jung per l’intero corso delle sue ineludibili ricerche.
A questo proposito sono incorso nuovamente in un paragone che già mi rimase impresso quando lo lessi per la prima volta altrove, ossia quello tra Jung e Nietzsche: il primo riuscì a controbilanciare l’impeto della sua vita interiore grazie all’esercizio della sua professione medica e alla presenza della propria famiglia, a differenza del secondo che nella propria vita ebbe soltanto i suoi pensieri e di questi finì per essere l’insana vittima.  
Gli appunti che ho vergato a mano su un mio caro quaderno hanno tirato fuori elementi per me nient’affatto inediti e in particolare i seguenti: l’importanza degli archetipi, il ruolo di anima e animus come mediatori con l’inconscio a seconda del genere sessuale, le posizioni sui sogni e la libido di Jung in contrasto con quelle di Freud, il Sé quale scopo dello sviluppo psichico e il carattere non lineare della sua (possibile) evoluzione, la definizione di psichiatria come una “espressione articolata della reazione biologica di cui lo spirito cosiddetto sano fa esperienza alla vista della malattia mentale”, le forti variabilità di psicoterapia e analisi che sono pari alle variabilità degli individui, l’importanza della storia quale ausilio della psicologia dell’inconscio affinché essa riesca ad aggirarsi tra gli archetipi e, inoltre, le proiezioni di cui soffrono i legami affettivi che ostacolano la realizzazione di sé e di una certa oggettività.  
C’è tuttavia una prospettiva che non ho còlto in altri testi di Jung  o di cui forse, colpevolmente, non ho serbato memoria, ovvero l’ipotesi secondo la quale sia lecito supporre che uno sviluppo della coscienza possa agire sull’inconscio così come quest’ultimo agisce sulla prima.

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19
Apr

Psicologia e alchimia di Carl Gustav Jung

Pubblicato mercoledì 19 Aprile 2017 alle 13:32 da Francesco

Sono giunto alla fine di Psicologia e alchimia di Carl Gustav Jung, un libro di cui per lungo tempo avevo rimandato lo studio e la lettura. La concezione dell’alchimia come semplice antesignana della chimica mi dà l’idea della stessa confusione che sussiste tra l’aurum vulgi, ovvero l’oro del volgo, e ciò a cui invece punta davvero il processo di trasmutazione, ossia l’aurum nostrum.
Jung ha cura di sottolineare l’aspetto psicologico del processo alchemico ed equipara la prima materia (in quanto base dell’Opus) a un contenuto psichico autonomo il quale, in ragione del suo carattere soggettivo, sfugge a ogni definizione, inoltre egli precisa come la proiezione di questo contenuto sia inconscia. Le considerazioni di cui sopra fanno il paio con i due aspetti fondamentali dell’alchimia, ovvero la pratica del laboratorio e il processo psicologico che è in parte conscio, in parte inconscio. Per Jung la nigredo (cioè la prima fase dell’opera alchemica) ha una corrispondenza psicologica con l’incontro della cosiddetta Ombra; la sostanza trasformante ha la duplice qualità di materia vile (resa da allegorie diaboliche) e allo stesso tempo presenta un carattere prezioso, persino divino: è questa che conduce dall’infimo, al supremo, dall’animale infantile e arcaico all’homo maximus mistico. Oltre a simili idee e alle loro più precise implicazioni v’è un’ipotesi che ha catturato il mio interesse: mi riferisco a quella secondo la quale così come vi sono stati giacenti al di sotto della coscienza, ve ne possono essere altri al di sopra di essa.
Ho trovato stimolanti i parallelismi tra il Lapis e Cristo benché il concetto del primo affondi le sue radici ben più in profondità rispetto alla figura del secondo, e ho appreso con ancor maggiore interesse la differenza tra lo scopo dell’alchimia e il fine del cristianesimo: la prima non ha come priorità la redenzione dell’uomo, caratteristica che è invece preminente nel secondo, ma vuole redimere la divinità che è perduta e dormiente nella materia. Sempre in merito al rapporto tra l’alchimia e la dottrina cristiana mi ha fatto sorridere una piccola verità di Jung sulla nascita dei Rosacroce, ovvero che la ragion d’essere delle società segrete è quella di mantenere in vita la forma di un segreto a cui sia venuta meno la sua sostanza: ho incontrato quest’affermazione nella parte conclusiva del libro, precisamente quando Jung scrive del declino dell’alchimia e ne colloca l’inizio al diciassettesimo secolo.
Mi sono poi imbattuto in utili considerazioni a corredo della tematica principale; il concetto di Sé, ribadito ancora una volta come comprensivo di coscienza e inconscio di cui è, appunto, il centro così come l’Io è il centro della coscienza, tuttavia anche l’assunto per il quale una conoscenza che sia soltanto intellettuale non basti a liberare il soggetto dall’infanzia e di come per tale scopo sia necessario un approccio in cui il ricordare sia anche un rivivere. Ancora in merito al Sé mi ha colpito una critica che viene rivolta a chi lo inquadri entro i limiti della psiche individuale: per Jung questa è una riduzione arbitraria e non scientifica.
A conclusione di questi miei sparuti appunti ricorro a una citazione di Maria Prophetissa che mi ha sedotto a prima vista: “L’’Uno diventa Due, i Due diventano Tre, e per mezzo del Terzo il Quarto compie l’Unità”.

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6
Mag

Dall’inconscio in su

Pubblicato domenica 6 Maggio 2012 alle 03:05 da Francesco

Ho quasi terminato la lettura e lo studio de “La scoperta dell’inconscio”, mille paginette divise in due volumi che illustrano la storia della psichiatria dinamica. Avevo davvero bisogno d’affrontare un’opera del genere per approfondire alcune nozioni e per schematizzarle in ordine cronologico. Negli ultimi capitoli mi sono reso conto di quanto abbiano inciso i vissuti personali degli psichiatri nell’elaborazione dei loro sistemi. Se Freud fosse nato e cresciuto in una famiglia come quella di Adler forse egli non avrebbe mai ideato il complesso di Edipo.
Il mio interesse per la psicologia del profondo non è mai stato accompagnato dalla pretesa di trovare una via maestra che potesse risultare valida per ogni individuo. Poiché la psicoanalisi è nata dall’autoanalisi di Freud e la psicologia analitica di Jung ha tratto molto dalla cosiddetta nekyia del suo creatore, anch’io, nel mio piccolo, per scopi introspettivi ottengo parecchio da un attento esame della mia persona, ma attingo pure e a piene mani da alcuni concetti dei luminari succitati oltreché dall’opera di Heinz Kohut: inoltre, benché io non abbia ancora letto nulla della sua bibliografia, ho tratto degli spunti piuttosto interessanti dagli interventi di Eugenio Borgna. Per conoscere me stesso credo che l’introspezione sia fondamentale, tuttavia non la reputo sufficiente ed è per questa ragione che vedo nelle neuroscienze una risorsa importante al fine di oggettivare alcune risultati del processo di autoanalisi. In questo ambito non riesco proprio a separarmi da un concetto esoterico che non ho mai deriso, ovvero quello del ricordo di sé nella dottrina di Gurdjieff, ma l’atto di essere presenti è altra cosa rispetto all’introspezione e forse ha una valenza noetica in senso aristotelico a differenza della seconda che invece è discorsiva. Quest’epoca offre strumenti potenti per la conoscenza di sé stessi, però in taluni casi possono rivelarsi delle armi a doppio taglio. Il simpatico Nietzsche in “Così parlo Zarathustra” fece quel viaggio interiore di cui più tardi si rese protagonista Jung nella suddetta nekyia, tuttavia il primo impazzì poiché non aveva nulla e nessuno al mondo, il secondo invece ne uscì più forte perché grazie alla famiglia e al lavoro fu in grado di mantenere il contatto con la realtà.
La storia mi conferma qualcosa che in passato ho sottolineato più volte sulla base della mia esperienza personale, ovvero la pericolosità di un’introspezione che si arresti in dei punti critici. Forse la superficialità che spesso viene messa all’indice, in alcuni casi è meno deleteria di una introspezione incompleta: quasi una difesa naturale. Oltre un determinato limite, immagino che lo sforzo per conoscere sé stessi sia irreversibile e io penso di averlo già superato da tempo senza però pentirmene.

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21
Ott

Quandunque il Sé si trasmetta in differita

Pubblicato giovedì 21 Ottobre 2010 alle 00:14 da Francesco

Anni fa mi denigravo giustamente. Se non avessi insultato me stesso non sarei mai riuscito a svegliarmi dall’apatia. Non ho mai trovato un maestro né qualcosa che potesse guidarmi, sennò avrei risparmiato un po’ di tempo. Ho sempre ricevuto esempi negativi che fortunatamente sono stati ottenebrati dalla mia lungimiranza. Anche quando ero sfiduciato e versavo nella mestizia in me sopiva la forza interiore che ancor oggi mi permette di camminare a mezzo metro di altezza. Potrei essere invulnerabile emotivamente, ma se assecondassi questa tentazione arrogante e arida dimostrerei soltanto una forma di debolezza meno palese, invece sono ancora disposto ad abbassare ogni difesa qualora delle circostanze eccezionali lo richiedano e proprio in questa capacità venata di consapevolezza io intravedo la parte migliore di me: non sono affatto freddo.
Il mio approccio ai sentimenti non è passionale né razionale, ma è dettato dall’unione di Psiche ed Eros alla luce del sole e non tramite incontri al buio come nell’opera di Apuelio o nelle usanze pulsionali delle decadi più recenti.
Il tempo non mi inganna più benché io qualche volta riesca a buggerare lui. Sono giovane, però comincio a rischiare di non vivere alcun trasporto emotivo e non mi faccio fregare da un timore che dovrebbe sorgere in me: fanculo, io lascio che divori le energie di qualcun altro. Il futuro è in divenire per definizione e così come non lo metto nelle mani di una cartomante, non lo depongo neanche sulle paure millantatrici che tra l’altro non trovano spazio nella mia lettura della realtà. Nei paraggi della mia persona, dalle anime in pena si levano cassandre esagerate e previsioni cupe, pare inoltre che per costoro ogni passo avanti debba essere seguito da un salto indietro. Mi disgusta questo leitmotiv depressivo e tendo a non dare fiducia a chiunque non l’abbia in sé. Spesso avverto grandi reticenze, sovente più assordanti delle verità che nascondono. L’onestà nei confronti altrui è auspicabile per vivere bene, però credo che quella verso sé stessi diventi addirittura imprescindibile per sventare certi disastri. Proroghe continue, rinvii ingiustificati e vari ricorsi a impegni abituali possono ritardare molto l’incontro di un individuo con i limiti a cui prima o poi dovrà dare udienza. Un tumore che viene lasciato ingrandire, un nemico a cui si concede il tempo di rinforzarsi: a terribili infermità porta la ferma decisione di lasciare altrettanto ferme le questioni insolute a livello interiore. Non critico la società poiché è troppo eterogenea per prestare il fianco a dei giudizi attendibili, però cerco di comprenderne una parte per non farmi contagiare dalla cecità volontaria. Lo ripeto per l’ennesima volta: io non pretendo di cambiare il mondo, d’altronde sarebbe un moto infantile di romanticismo, ma compio gli sforzi intellettuali e fisici per evitare che accada l’esatto contrario. Insomma, i conflitti intestini hanno ripercussioni sull’esterno e prima di puntare il dito contro gli altri forse un individuo dovrebbe domandarsi se non sia stato lui per primo a commettere l’errore di avvicinarsi a persone incompatibili. Talvolta l’incompatibilità è del tutto artificiale e viene evocata per negare qualsiasi valenza ad un’affinità che oltre alla gioia porterebbe anche la necessità di un confronto personale in uno dei soggetti interessati. Credo che nei veri inetti la felicità sia subordinata alla sopravvivenza di determinate istanze psichiche malgrado la parvenza di normalità e d’integrazione sociale che può risultare da un’attività febbrile in più campi o dalla semplice ripetizione di una routine cristallizzata.
Nei mezzi d’informazione forse la questione dei suicidi non viene affrontata spesso per evitare un aumento del tasso di mortalità, ma non sono rari i casi in cui una mancanza di insight porta alla morte come se si trattasse di una carenza organica. Forse una morte vivente insorge anche in coloro che si adattano alla tristezza e dunque l’adattamento a livello personale non rientra nei principi della selezione naturale perché quest’ultima, secondo me e limitatamente al campo emotivo, si spinge al di là di quanto è stato teorizzato per la sopravvivenza. Non compatisco chi decide di togliersi la vita sebbene per questa regola io preveda doverose eccezioni, contenute nel numero e mai nelle circostanze. Il suicidio fisico e quello emozionale per me rappresentano le lezioni più convincenti della natura per quanto riguarda la salvaguardia di sé stessi.

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15
Giu

Gli schiavi della solitudine indomita: prima parte

Pubblicato domenica 15 Giugno 2008 alle 00:01 da Francesco

Trovo molto irritante chiunque cerchi insistentemente di portare i propri piagnistei all’attenzione altrui. Credo che sia legittimo lamentarsi per qualsiasi cosa, ma ritengo che soltanto ad un’indignazione sincera e giustificata debba essere assicurato un posto nell’interesse pubblico. Non riesco a equiparare le proteste di chi è costretto a subire la prevaricazione delle organizzazioni criminali alle rimostranze di chi è stufo delle proprie delusioni amorose, tuttavia mi rendo conto che una comparazione del genere possa apparire sensata nel caso in cui venga veicolata dai mezzi lucrativi che vertono sul voyeurismo e immagino che un tale abominio favorisca un assopimento della coscienza civica qualora la personalità dello spettatore sia troppo debole per ottemperare ai suoi doveri censori. Non mi appresto a tessere una critica inutile e banale nei confronti dei mass media, ma voglio evidenziare come il meccanismo ingannevole che ho esposto poc’anzi sia diffuso anche tra le persone comuni. In quest’ultimo caso i mezzi lucrativi che ho citato in precedenza non generano un profitto economico, ma versano nelle casse dell’Ego un guadagno di poco conto. A mio avviso questa attività controproducente concede un’importanza eccessiva a determinate questioni e ne sottrae altrettanta ad alcune problematiche che a seguito di una visione più chiara possono rivelarsi più urgenti di quanto sembrassero in un primo tempo. Ciò che ho scritto finora è riscontrabile in quei soggetti che non sanno gestire la loro solitudine e cercano in ogni modo un contatto esterno invece d’impiegare il loro tempo per migliorare le proprie condizioni. Gli individui in questione sono facilmente riconoscibili perché indossano spesso un paraocchi che impedisce loro di notare quanto siano ridicoli e disperati, inoltre si palesano completamente quando cercano di appropriarsi dello stile di chi possiede una personalità consolidata e finiscono per diventare le copie sbiadite di qualcuno che hanno idealizzato in un momento parossistico o si trasformano nelle caricature di loro stessi. Se la natura non avesse dato a costoro una forma umana probabilmente essi sarebbero apparsi in qualche livello di “Final Fight” per appagare ugualmente il bisogno di combattere contro un’entità virtuale: la loro noia esistenziale. La scelta di un personaggio, un percorso lineare e azioni ripetitive: tre componenti che appartengono ai videogiochi degli anni ottanta e alle vite di alcuni inetti pedissequi.

Final Fight

Questo scritto non è una disamina con cui voglio avallare un giudizio netto su un tema vago, ma si tratta di uno sberleffo attraverso cui ironizzare sull’invadenza e la goffaggine di chiunque non abbia abbastanza carattere per gestire la propria individualità al di fuori delle attenzioni altrui. Taluni vogliono ottenere facilmente una considerazione che travalichi il loro valore reale, pretendono che qualcuno guardi le loro imprese e spesso assomigliano a dei cani che attendano una ricompensa dal loro padrone. Le mie parole sono aspre e ciniche, ma possono tornarmi utili ogniqualvolta io debba allontanare qualcuno che soddisfi tutti i requisiti pusillanimi dell’indolenza petulante. Penso che alcune persone non possano comunicare tra di loro nonostante parlino la stessa lingua e condividano un certo livello culturale, perciò mi rifiuto di fornire spiegazioni a qualcheduno che io non reputi in grado di afferrarle. Quando il mio silenzio incentiva l’insistenza io divento un individuo sgradevole, ma credo che talvolta sia necessario abbassarsi ad un livello piuttosto infimo per estirpare certe radici e di conseguenza accetto tranquillamente le espressioni animalesche del mio carattere. Non mi piace psicanalizzare la gente e non penso di avere i titoli per farlo, ma provo sempre ad avvalermi di qualche nozione per scremare i miei rapporti sociali e di solito ottengo dei risultati soddisfacenti. Le personalità disturbate a cui mi riferisco non sono in grado di dialogare, ma usano l’interlocutore di turno per lanciarsi in monologhi noiosi che spesso mettono in risalto degli scenari interiori piuttosto desolanti. A questo proposito voglio citare due casi emblematici. Una volta una ragazza mi disse che io non avevo una vita reale mentre lei si vantava di trascorrere le sue sere con l’alcol, la droga, il sesso occasionale e le chiacchiere dei suoi amici, ma quando parlava della sua esistenza ricorreva spesso a termini tristi ed era evidente che attraverso la critica della mie rinunce salutistiche cercasse di giustificare la sua condotta nociva. Il secondo episodio riguarda un vecchio frocio di quarant’anni che un po’ di tempo fa mi parlò della sua vita per alcuni minuti senza che io gli avessi chiesto nulla e prima che io gli porgessi le mie più sincere minacce di morte costui mi disse che non ero omosessuale perché non avevo mai provato a prenderlo nel culo, ma era abbastanza chiaro che un ragionamento simile fosse soltanto l’alfiere ingenuo di un secondo fine, inoltre in base a questa idiozia avrei potuto chiedermi se fosse lecito credere che non ero diventato un felino perché non avevo mai guardato “Gli Aristogatti”.

Gli Aristogatti

La solitudine rispetta la persona in cui risiede allo stesso modo in cui quest’ultima rispetta se stessa ed è normale che conduca verso degli atteggiamenti insulsi qualora si ritrovi in un’esistenza autolesionistica. Non è semplice gestire il vuoto e mi ritengo fortunato perché basto a me stesso, ma oltre alla buona sorte lodo ogni sforzo che ho compiuto per modellarmi secondo le mie esigenze e su queste pagine ci sono alcune tracce del lavoro che ho compiuto su di me. Disprezzo l’apatia e chi se ne fa portabandiera. Prima che la mia metamorfosi raggiungesse il livello attuale anch’io ero incline all’inerzia, ma perlomeno non infastidivo il prossimo con i miei problemi apparenti e già allora ritenevo che la mia discrezione fosse un’ottima premessa per aspirare ai risultati che ho ottenuto in seguito. Non sono contrario ai modi inconsueti con i quali una persona può porsi e ammiro chiunque sappia veicolare con originalità la parte autentica di sé, ma respingo fermamente ogni forma di autocommiserazione e disprezzo chiunque si identifichi continuamente in qualcosa o qualcuno per sopperire alla scarsità di idee. Trovo che tra le parole di quest’oggi prevalgano una lieve forma d’astio e un po’ di sarcasmo, ma la loro presenza non mi disturba e ritengo che le giuste dosi di questi elementi siano fondamentali per affinare la mia lettura della realtà.

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