Vorrei risiedere in un’alta ed eburnea torre dalla quale tutto guardare e nulla temere, ma mio malgrado per plurimi versi sono legato a doppio filo al destino di altri umanoidi. Per me la vera e unica indipendenza si traduce in un’autarchia totale e non è la semplice affermazione in un qualsivoglia sistema rispetto a cui il soggetto resta comunque in subordine.
Non sono neanche libero di eludere le radiazioni più o meno ionizzanti che mi attraversano né mi è dato di trovare un’alternativa al ciclo di Krebs, perciò i vincoli, certi evidenti e altri surrettizi, sono innumerevoli e ineludibili. Non posso farci nulla se qualcuno decide di coinvolgermi in una guerra mondiale o se alti papaveri invece della manna fanno cadere dal cielo obblighi e divieti che difettano di pragmatismo. La gerarchia di per sé come concetto non mi disturba né mi repelle, ma sono i criteri con cui sovente è posta in essere e gestita che me ne fanno disprezzare l’applicazione. Con sommo fatalismo accetto che nei ruoli apicali si trovino anche figure mediocri e inadeguate alla gestione di qualunque potere, foss’anche solo quello di tirare lo sciacquone. Forse a volte il problema non verte attorno all’assenza di alternative, bensì al loro grande numero e così in alcuni casi, per puro paradosso, una scelta obbligata può rivelarsi quella più libera. Non ho una parte attiva nelle grandi questioni del presente e quindi sono l’ennesimo spettatore pagante, difatti il dazio delle decisioni altrui ricade anche su di me, ma non ho scelto io di assistere all’ennesima replica della follia umana. Sedersi comodi e crepare.
Tenendo conto di tali premesse mi sembra lecita ogni astensione da sforzi maggiori del dovuto e da ogni slancio che superi troppo un minimo sindacale. Fare il sufficiente è abbastanza e non si tratta solo di un pleonasmo, ma di un vero e proprio manifesto. L’ambizione è una cretina che pensa di saperla lunga, tuttavia ha le gambe corte come le menzogne sulle quali si fonda. Esistere è una tentazione trascurabile.
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