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Nell’arbitraria presenza di me

Se mi prendessi troppo sul serio mi prenderei in flagranza di reato. Di cosa discetto stasera e, soprattutto, al cospetto di quali ombre? Qualche parola la voglio dedicare alla memoria di un signore che ha lasciato il corpo da pochi giorni. Costui per buona parte della sua ultima incarnazione è stato un musicista, ma poi una malattia neurodegenerativa lo ha costretto ad abbandonare la propria carriera.
Conobbi Lino, questo il suo nome, alcuni anni fa grazie a mia madre, e una sera gli regalai un vinile del gruppo nel quale aveva miliato negli anni settanta. Era un tipo simpatico, estroso e spero che le sue prossime esistenze si svolgano nel migliore dei modi. Un paio di anni fa ci eravamo ripromessi di fare un’altra cena a casa sua, con quella famiglia che gli voleva tanto bene, ma poi la pandemia e questa vita di merda ce lo hanno impedito. Ciao Lino, bon voyage.
A casa non ho una lavapiatti né un’asciugatrice, ma nemmeno una macchina per elaborare i lutti giacché non ne ho bisogno: la morte è una fase intermedia e questa mia intima certezza non ha contorni consolatori né religiosi. Il tempo sottrae ogni cosa dalla rispettiva attualità ed è come una danza di cui taluni non conoscono i passi o non sanno seguire la cadenza. La nostalgia è un difetto di fabbricazione del presente, così come per altri versi lo è la noia, ma quale autorità ho io per affermare certe cose? In realtà le ripeto a me stesso, così sgombro il campo dai dubbi e lo metto a disposizione per le mine antiuomo. C’è chi si toglie la vita e chi vorrebbe averne ancora un po’: buffo questo mondo, vero? Io continuo a cercarmi dentro perché le scoperte più stupefacenti a cui abbia mai assistito sono sempre state endogene. Forse non sono comprensibile, la mia acqua non è potabile, ma anch’io non capisco altri individui né posso abbeverarmi alle loro stesse fonti. Ognuno si disseti come vuole, però che almeno la manna dal cielo sia uguale per tutti, certificata dall’Europa o dall’Iperuranio.

Francesco

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