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Quel muliebre sguardo da cui rifuggo

Per ragioni piuttosto ordinarie mi trovo a mettere piede con regolarità in un determinato luogo, invero si tratta di un’incombenza il cui espletamento non mi dispiace, e da un paio di mesi mi sono reso conto che una ragazza ivi impiegata mi rivolge degli sguardi indagatori. All’inizio ho pensato che la mia fosse soltanto un’impressione sbagliata, una percezione erronea dovuta a una possibile e plausibile sopravvalutazione dell’ego in quel frangente, perciò mi prendevo in giro da solo dicendomi mentalmente: “Eh sì, sta tutto il giorno là ad aspettare te che entri. Dev’essere proprio così, non può esserci altra spiegazione”.
Non mi reputo un ragazzo orripilante, secondo me non mi manca nulla, però sotto molti aspetti mi considero nella media e quindi, per quanto possa essere ipertrofica, la mia autostima non mi porta mai a ritenere che una giovinetta possa stravedere per me, inoltre io non ho niente da offrire a nessuno perché sono troppo pigro per rendermi affascinante e troppo scanzonato per far sentire una ragazza speciale. Sto con me stesso e con il mio spirito.
A un certo punto ho cominciato a riconoscere una frequenza nelle occhiate della ragazza di cui sopra ed esse non si sono mai dimostrate languide o ammiccanti, bensì vi ho percepito (non so se giustamente o meno) un invito a stabilire un primo dialogo di circostanza o perlomeno un’espressione di casto e cordiale ricambio da cui, ovviamente, io mi sono sempre astenuto. Non si tratta di una ragazza bellissima, nel senso che se fossi il direttore di Vogue spegnerei sul nascere ogni sua speranza di campeggiare sulla copertina della rivista, però la trovo carina, delicata, portatrice di una certa beltade e mi chiedo quale sia la sua personalità. Una parte di me vorrebbe rispondere a quegli apparenti segnali, ma evito di farlo perché oltre al rischio del fraintendimento sussiste quello ancor maggiore che di fraintendimenti non ve ne siano proprio. Per scongiurare involontarie risposte somatiche da parte mia, ho imparato a eludere il contatto visivo con ragazze piacenti e difatti, in casi del genere, da buon maratoneta dirigo lo sguardo verso un orizzonte immaginario a trenta metri di distanza.
Non ho paura di relazionarmi con l’altro sesso né della psicologia spicciola a cui taluni ricorrono, ma il mio amor proprio ormai ha assunto dimensioni gargantuesche e non riesco a immaginare come io possa stare con qualcun altro meglio di quanto stia con me stesso, non riesco a figurarmelo né sono spronato ad approfondire la cosa. Forse se incontrassi Ipazia di Alessandria nel corpo di Pantasilea potrei ricredermi su tutto questo, ma immagino che si tratti di un’evenienza assai improbabile.

Francesco

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