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Vent’anni dopo il terzo millennio

Quest’oggi ho concluso il mio dicembre podistico con una sessione da diciottomila metri che ha portato il computo dei miei chilometri mensili a 550, ma di questi dati parlerò più avanti con un filmato nell’idioma d’Albione. Gli ultimi dodici mesi sono stati uno più simpatico dell’altro e non m’illudo che la loro scia di sangue si arresti di colpo per fare cosa grata al calendario gregoriano. Sono un po’ indifferente agli accadimenti del mondo e cerco di perorare la mia guerra santa affinché lo spazio vitale a mia disposizione non si riduca troppo, ma si tratta anche di un atto conoscitivo in continuo divenire di cui una vocina interiore, ab illo tempore, è stato l’innesco, il casus belli. Nutro l’autostima in maniera autonoma e non cerco all’infuori di me altre fonti di approvvigionamento in quanto risultano troppo impegnative, ma non ne ho manco bisogno perché talora la mia attività ne genera persino un surplus. Non sono in debito con nessuno e nessuno lo è con me, non bramo accordi né nuove linee di produzione e non ho bisogno di prendere scorciatoie per giungere laddove il tempo mi tradurrà inesorabilmente.
Dal nuovo anno non mi attendo nulla di diverso da quanto è già accaduto negli ultimi millenni della sciagurata civiltà umana, ovvero la tendenza alla sopraffazione e un puntuale esercizio dell’ingiustizia a qualsiasi livello dello scibile. La nostalgia per lo stato di natura non passa mai di moda, perciò sarebbe opportuno che scritte al neon di “homo homini lupus” campeggiassero nell’àere durante ogni fashion week.
In media i maschi italiani vivono ottant’anni; io attualmente ne ho trentasei e il tempo che mi resta a disposizione, consti esso di mezz’ora o sessantaquattro primavere, non voglio dedicarlo alla coltivazione di vane speranze: proprio per scongiurare quest’ultimo male, a guisa di vaccino, dedicherò un’esigua parte di detto tempo alla rilettura dello Hobbes.


Francesco

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