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I miei riti di passaggio: parte due

Cadono i corpi dei molti, invero di tutti: prima furono padri e madri, poi divennero dei cadaveri e un domani anch’essi saranno sterminata dimenticanza. Qualche volta sui figli non si ripongono più speranze, ma rose, crisantemi o qualsiasi altra cosa che si confaccia ai costumi funebri della cultura d’appartenenza. Il silenzio dei morti è identico ovunque e ovunque inamovibile.
Lungo le strade dei miei anni terreni scorgo come spesso certuni seppelliscano una parte di sé assieme alle salme nelle quali un tempo vibrava la vita e su cui essi proiettavano i propri umori. Sono intero, io, non ho mai impugnato il badile né ho mai strappato un fiore dalle proprie radici per aggiungere morte a morte. Mi volto verso l’altrui sofferenza per puro caso o forse qualcosa mi induce a farlo senza che me ne renda conto, però quelle coltri di dolore sono troppo distanti perché io possa comprenderle davvero. Non mi manca l’empatia, bensì il ponte sul quale farla scorrere e una destinazione verso cui dirigerla, perciò la lascio assisa sul suo trono, regina d’un regno senza nome nel nome di un Io senza regno.
Un obolo alle prefiche e libero accesso alle frasi di circostanza affinché tutto si ripeta secondo i crismi dei fantasmi. Sono orfano nella mia lingua madre e non partecipo alle feste né alle veglie. Condivido dettami antichi che agiscono sottopelle, ma ne seguo le tracce senza coprire le mie e non mi chiedo dove conducano. C’è chi fatica a stare al mondo e chi se lo porta in groppa senza fiatare più di tanto, tuttavia sapere cosa sia giusto è talora una questione dal sapore insoluto. Proferir parola e preferire di non averlo mai fatto, non per uno smodato amore verso il silenzio, ma per scongiurare i fastidi del rumore. Cosa c’è da dire che non sia ancora stato detto? Forse ciò che manca davvero è il modo giusto di ripetere quanto è già stato pronunciato, però io non dirigo i cori e m’illudo di farne parte solo nelle scene mute, quando al Logos viene negato anche l’onore delle armi e appare in tutta la sua futile apparenza, funzionale solo al quieto vivere.
Così divàgo, solìvago, e un altro mio giorno cangia il proprio senso, perdendolo e ritrovandolo. Oggi la quiete si fa discorsiva, non ci sono arcieri che mirino all’aorta e un vento fresco decreta il principio di qualcosa mentre sancisce la fine di qualcos’altro. La calma prima della tempesta è un’occasione di ristoro e non un presagio di morte: è un momento d’utile quiete e di cui io intendo aumentare la durata sempre di più, al punto che si metta al passo della mia.


Marina con nuvole di pioggia di John Constable, 1827
Francesco

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