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A volte come un meteco

Il crollo di un campanile mi ricorda puntualmente come il tempo sia destinato alla stessa caduta. Vorrei slacciarmi dal corpo per fluttuare sopra i nocumenti. Vorrei convertire il mio ateismo in un atto di fede per una palingenesi retroattiva, però non esiste un Monte dei Pegni che me lo valuti abbastanza e anche per questa ragione prediligo altri crinali, irti di saliscendi sui quali mi diletto a corsa o in bicicletta. Trovo insincere quelle parabole della vita che certuni sono adusi a tracciare o a ricalcare sotto le ombre degli archivolti; mi ricordano gli orribili castelli di sabbia dei bimbi, ma irraggiungibili dalla salmastra clemenza d’una marea che possa abrogarne le storture. I bagni d’umiltà sono fuori questione nonché fuori stagione.
Il primato della dissoluzione non mi spinge verso un annichilimento precoce, bensì mi rende più incline a felicitarmi per i respiri che pongo in essere. Dovrei avvalermi di più della criptolalia; non coltivo l’utopia della comprensione: anch’essa è fuori stagione e, purtroppo, pure fuor di dubbio. Per pareggiare i conti mi confronto con la mia immagine riflessa; di rado con quella fotostatica. Non scorgo grandi cambiamenti nell’immediato futuro, tuttavia gli orizzonti restano incantevoli. Chissà se le istruzioni per l’uso assomigliano alle garze che qualche volta i chirurghi lasciano nei corpi dei pazienti: meticolosi e sbadati come i protagonisti del pantheon ellenico.

Francesco

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