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Gli schiavi della solitudine indomita: seconda parte

La seconda e ultima parte di questo scritto è caratterizzata da un’impronta meno ironica e lascia più spazio ad alcune considerazioni personali. Ho già sottolineato quanto io reputi importante la capacità di gestire la solitudine, ma credo che le mie parole debbano soffermarsi ancora su questo punto. Suppongo che la povertà e la ricchezza, la cultura e l’ignoranza, la fama e l’anonimato, il potere e l’impotenza siano delle entità artificiali con le quali i membri della società umana si diversificano in base a dei valori quantitativi, ma ipotizzo che a capo di queste discriminanti ve ne sia una più grande: la governabilità della solitudine. Penso che una persona con molto denaro possa essere pericolosa qualora non si renda conto di quanto i suoi averi valgano poco al cospetto della padronanza di sé, tuttavia non voglio negare alla cartamoneta la sua importanza e ritengo ingenuo chiunque stigmatizzi i soldi per esprimere il suo disprezzo verso alcuni modi in cui essi vengono ottenuti. Mi disgusta chi possiede molte nozioni e allo stesso tempo non conosce nulla di sé stesso. Mi pare che talvolta la cultura venga confusa con l’intelligenza, ma io non penso che la prima sia un sinonimo della seconda e credo che lo studio possa costituire una forma di suicidio qualora tra i suoi scopi primeggi l’obiettivo di ignorare alcune questioni introspettive. In base a quanto ho scritto finora vedo qualcosa di paradossale nella fama nei casi in cui essa appartenga a qualcuno che risulti più familiare ai suoi estimatori che a sé stesso. Trovo che la solitudine sia un’entità giusta e penso che quest’ultima offra le stesse possibilità ai prigionieri e ai loro carcerieri. A mio avviso l’autolesionismo è un’offesa alla solitudine e immagino che quand’essa subisca un simile affronto assuma delle sembianze patologiche per diventare una malattia vendicativa. Le domande che seguono sono accomunate da una risposta che non ha bisogno di essere enunciata. Cos’è che arma gli studenti universitari negli atenei? Dove nasce la forza negativa che porta all’uxoricidio? Chi accompagna la canna di una pistola alla tempia di una persona? Qual è la sorgente da cui sgorga la meschinità che appartiene a chiunque nasconda la parte più recondita della propria personalità? Cosa induce taluni a un’esuberanza artificiosa? Connoto la solitudine come una forza indipendente e demiurgica e penso che sia tale soltanto nel microcosmo di ogni persona, perciò non la elevo al pari di una divinità collettiva e come al solito mi tengo lontano da qualunque fantasia ultraterrena che si prodighi nella distribuzione di comodità pericolose per l’intelletto. Credo che la volontà sia l’unico punto di contatto che possa instaurare un dialogo corretto tra il singolo e la sua solitudine affinché quest’ultima possa rivelarsi nel suo splendore per diventare il fondamento savio di ogni rapporto interpersonale.

Francesco

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