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L’arcipelago del paradiso

I quarant’anni di un fuggitivo intonano il loro inno alla vita lungo un litorale caraibico tinteggiato dalle prime luci crepuscolari. Onde educate, palme assopite e silenzi armonici. Una vecchia auto affronta lentamente una salita e lascia dietro di sé i suoni di una radio locale. Sull’isola i ragazzini giocano con palloni bucati mentre i loro fratelli maggiori contrattano vizi capitali con i turisti. Sui tavoli di un bar costruito con legno e bottiglie degli anziani lasciano cadere pigramente delle carte da gioco. Sembra che il tempo si riposi in questo angolo della terra. Il fuggitivo quarantenne ha molti dollari e altrettanti motivi per preparare le valigie e un nuovo cambio d’identità. In paradiso transitano mercanti di polveri e angeli fuori servizio che gestiscono i tavoli verdi dei casinò elitari. Durante il giorno le ragazze più povere si spogliano sotto il sole e di notte sopra i corpi adiposi di uomini senza scrupoli. Ogni giorno gli aerei atterrano e decollano vicino a una spiaggia molto frequentata e la gente, ormai abituata al loro transito, ne accompagna le manovre con lo sguardo. Entusiasmo aerodinamico. Partenze e arrivi, estradizioni e nascondigli. Carretti di verdura e souvenir, parole di benvenuto e sguardi fieri di poliziotti corruttibili. Un vecchio che tenta di imitare Hemingway crede che il suo paradiso sia l’anticamera dell’inferno e si chiede quale volo segua la rotta per un luogo senza nome e privo di connotazioni. Volare via come se non avessimo mai fatto scalo.

Francesco

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