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Apologia di sarcasmo

Le mie casse stanno pompando “Who’s Hard”, un album del 2005 di Big Shug. “Whassup Duke, it’s Big Shug again, here to make money, fuck makin’ friends”. Ho le gambe a pezzi e non ho voglia di fare un cazzo. Penso che stasera mi guarderò qualche puntata di “South Park”. Ho sempre amato la volgarità gratuita e il cattivo gusto, ma questa mia preferenza per un certo tipo di sarcasmo non è dovuta al classico atteggiamento adolescenziale da bastian contrario. Per me non c’è nulla di male a scherzare sulle malattie terminali, sulla morte, sulla povertà, sulle debolezze e su ogni tema che appare dogmatico e intoccabile. “South Park” e “Beavis & Butthead” sono gli esempi migliori del tipo d’ironia cinica e demenziale che prediligo, ma penso che si possa fare ancora di più. Sono alla ricerca di nuove serie animate con cui dilettarmi durante le sere poco animate. Mi piacciono i personaggi grotteschi che tirano fuori battute terra terra su ogni tipo di argomento evergreen. Se fossi in grado di disegnare decentemente realizzarei un cartone animato ambientato in Italia con personaggi stereotipati della penisola: un terrone, un ultras dell’Atalanta, un’aspirante velina di centocinquanta chili e un bestemmiatore bigotto. Ah, peccato che la natura non mi abbia donato una mano da artista, in compenso me ne ha regalate due da segaiolo. Mi sento bene quando derido me stesso e tutto quello che mi circonda, il mio nichilismo è ludico e non autodistruttivo. Mi piace chi gioca con il nulla e dileggia le tragedie del mondo. I vittimisti mi annoiano tremendamente, quasi quanto le repliche di “Star Trek: Voyager”.

Francesco

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