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Un weekend nell’iperuranio

Le cronache continuano ad allietare i malati cronici. Una madre autorizza il decollo di un cucchiaino con pochi grammi di omogeneizzato a bordo. Devo abbassare il telefono e prenotare un biglietto per il prossimo ornitottero diretto nell’iperuranio. Quando cammino temo che le mie gambe adamantine mi abbandonino per scherzo in mezzo a una piazza gremita di panchine vuote. Le mie parole sono un po’ asociali e selettive, spesso si rifiutano di tessere un discorso con altri artigiani verbali. I piani alti del mio corpo non sentono il bisogno di essere compresi e lo stesso stato di non necessità è avverito anche dagli altri azionisti delle mie volizioni. Devo mettere il tappo alla penna, chiudere il calendario e segnare il giorno della partenza per l’iperuranio. Un signore tutto bianco dice che gli anni non perdonano: penso che il signore tutto bianco non capisca un cazzo. Un altro signore gira ventiquattr’ore al giorno con la sua ventiquattrore, sovente indossa una camicia di forza firmata da Roberto Cavalli e porta un cappio elegante al collo simile a una cravatta urlatrice. Ci sono subculture che non mi attirano e ce ne sono altre che cercano bersagli a tiro, ma io non sono né un bersaglio né un franco tiratore. Gli opliti sono tornati in voga: oggi impugnano modelli Siemens e stanno in formazione sotto i rosoni della Vodafone. Devo disfare le valigie che non ho mai preparato, regolare in ritardo la sveglia che non ho mai regolato in orario e restare immobile per la partenza verso l’iperuranio; porterò con me dell’inchiostro simpatico per scrivere cartoline completamente bianche a persone che non conosco e che probabilmente non esistono.

Francesco

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