Un tizio si getta nella acque più torbide del mondo, raggiunge il fondo degli Inferi, lo tocca con un dito e risale in superficie. Costui non è un eore immortale, ma un impiegato che resta in apnea per trent’anni. Una macchina atta a ripetere inezie che non gli permetteranno mai di dare il suo nome a una piazza o a una via. Nessuna epopea e nessuna guerra di Troia: solo qualche troia scambiata per una passione eterna. Movimenti consueti, nessun gesto inconsulto, vacanze programmate e l’ntenna neurale puntualmente sintonizzata sul teatrino dello sport danaroso. Egli andrà incontro ad accessi d’ira per finte questioni ideologiche e a causa di apparenti prese di posizione. Presto scorderà la tachicardia provocata dal dolore che non conosce analgesico e poi inizierà a rimpiangere i ritmi febbrili delle sue paure giovanili. L’ipotermia della sua sensibilità lo renderà un morto parlante e non gli resterà che continuare a decedere senza rivivere. Questo tipo assumerà alcol e nicotina a piccole dosi per morire lentamente: la sua prima metastasi sarà la sua ultima interlocutrice. Trascorrerà i suoi ultmi giorni tra gli odori di plastica dei tubi collegati al suo corpo e la sinfonia minimalista dei macchinari medici. Il sipario si chiuderà prima dell’epilogo e lui si ritroverà dietro le quinte con un cartellino dell’obitorio attaccato all’alluce.
Mi appoggio ai silenzi che si susseguono senza soluzione di continuità, tuttavia con la stessa…
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