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Giu

Corpus hermeticum e Pentirsi di essere madri

Pubblicato venerdì 30 Giugno 2017 alle 00:51 da Francesco

Dopo la lettura de Il Kybalion mi ero ripromesso di andare a ritroso nella letteratura ermetica, perciò ho scelto di recuperare il Corpus hermeticum di Ermete Trismegisto, o meglio, dei vari autori che in tempi diversi hanno partecipato a questa silloge.
Non è stata una lettura sorprendente poiché dei molteplici concetti ivi presenti avevo già recepito gli echi negli scritti di Jung e in altre opere dal tenore vagamente esoterico.
Di questo testo sapienzale ho vergato a mano solo uno sparuto numero di appunti sul mio pregiato quaderno, perciò ne allego qui ancor meno e di più sintetici a mio uso e consumo.
Primo: l’uomo terreno è un dio mortale, il dio celeste è un uomo immortale. Il possesso del Logos può consentire a certi uomini di subire il destino in modo diverso rispetto ad altri: su questo punto, con un salto d’oltre mille anni, mi vengono in mente delle analogie con l’amor fati di Nietzsche. Nei vari trattati v’è poi la presenza a più riprese di una cosmologia emanatistica che rimanda al neoplatonismo (o viceversa? Misteri della datazione).
“La verità rivelata non può essere divulgata senza che venga automaticamente screditata e calunniata”: non ricordo se abbia sintetizzato questo concetto o se sia proprio un virgolettato, ma si tratta di un monito ricorrente e spesso sotteso a più insegnamenti.
Infine: la preminenza del Nous nel contatto divino e quindi la superiorità dell’intelletto sull’anima la quale, invece, svolge un ruolo di intermediaria ed è suscettibile alle passioni poiché si ritrova circondata dal corpo.

Il libro di Orna Donath è un saggio di sociologia su un tabù che forse è più sentito nella società israeliana (sulla quale è imperniato l’approccio) che in quella italiana, ossia il pentimento di alcune donne per le loro maternità.
Non si tratta di un’analisi viziata da un femminismo fuori tempo massimo benché a mio parere un po’ ve ne sia (cum grano salis).
Il rimpianto materno non si traduce necessariamente in un desiderio infanticida e anzi, a volte presta il fianco al paradosso per cui certe madri amano i propri figli ma al contempo vorrebbero che essi non fossero mai venuti al mondo. Mi sembra del tutto demenziale l’idea che ogni donna sia più o meno predisposta al ruolo di madre e abbia addirittura in sé questa vocazione, perciò non mi sorprende che vada per la maggiore in certe tradizioni millenarie.
Cosa non si fa per la specie.
Indagare le ragioni prime di alcuni concepimenti è un po’ come mettere il dito nella piaga mentre l’altra mano scoperchia il vaso di Pandora, ma d’altro canto l’ammissione di un errore tanto grave è difficile.
Le madri che si sono prestate allo studio (sotto una falsa identità) appartengono a fasce d’età e contesti diversi, a riprova di come talora la ritrosia (quando non la repulsione) per tale figura non sia una questione squisitamente economica, lavorativa o affettiva.
Tra le molteplici testimonianze ve ne sono alcune piuttosto caustiche che mi hanno persino fatto ridere di gusto.
Io stesso ho chiesto conto alla mia genitrice di un suo eventuale pentimento per la mia procreazione e lei ha risposto negativamente, ma chissà se altrettanto sinceramente.
Non avrei appreso a malincuore il possibile rimpianto di mia madre per la mia nascita, difatti sono un cultore dell’aseità e credo che il vero banco di prova dei rapporti umani si svolga nel regno dei legami non consanguinei (o laddove la consanguineità risulti ignota), ma questo è un altro discorso.

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Lug

Il tre volte grande

Pubblicato venerdì 29 Luglio 2016 alle 02:24 da Francesco

La scorsa settimana ho ripreso in mano un libricino di cui avevo già lambito i contenuti in molteplici occasioni: mi riferisco a quella summa di insegnamenti ermetici che risponde al nome de Il kybalion. La lettura di questo scritto mi ha ricordato una sibilla di cui ho perso le tracce nell'etere un anno fa: malgrado tutto di costei serbo un ricordo platonico assai piacevole.
Come al solito il mio approccio è strettamente personale e dunque nelle righe seguenti riporto solo i passaggi che hanno catturato la mia attenzione, quei frammenti che per una ragione più o meno conscia mi hanno spinto a vedervi più della giustapposizione di parole delle mia lingua madre; io credo che l'arbitrarietà degli appunti sia essa stessa un indizio per qualsiasi indagine introspettiva. Le analisi critiche, l'ermeneutica, l'esegesi e gli assoluti non mi competono.

Allorché si ode il rumore dei passi del maestro, si aprono le
orecchie di coloro che sono pronti a riceverne l'insegnamento.

Mi ha colpito questo assunto perché è fornito a corredo della tesi secondo la quale Il kybalion attiri l'attenzione di coloro che siano pronti a riceverne gli insegnamenti; considero tutto questo piuttosto suggestivo, però la parte scettica di me si domanda se non si tratti di un espediente atto a lusingare il lettore, così da infondere in quest'ultimo la vaga idea di una sua unicità che non sia soltanto quella propria (paradossalmente) di… ogni individuo.
Sul tema della trasmutazione mentale non riesco ad avanzare dubbio alcuno e quindi neanche sulla definizione dell'universo come un tutto mentale: in questo concetto v'è in nuce quanto poi sarà "scoperto" (o meglio, quanto sarà allungato di quel brodo primordiale) da chi verrà dopo. Qualora il Tutto (con la ti volutamente maiuscola) sia mentale, allora «non può essere materia, dato che nulla può apparire nell'effetto che non sia nella causa». Non trovo appigli per negare una simile concezione e non riesco proprio a immaginare quali bordate le si possano infliggere.
Il celebre principio della corrispondenza, quello che campeggia sulla tavola di smeraldo, è forse l'insegnamento che più d'ogni altro ho provato ad assimilare nel corso degli anni: «com'è al di sopra, così è al di sotto; com'è al di sotto, così è al di sopra». Esso dà la chiave per comprendere i paradossi che sono immanenti alla natura, ma al di là delle parvenze di comprensione trovo che sia davvero arduo per me applicare un tale monito con la dovuta perizia e una piena regolarità, di conseguenza mi contento di quei brevi istanti in cui ogni cosa mi sembra al suo posto, come in fulminee estasi dietro cui non v'è merito alcuno. A tale proposito, forse un po' forzatamente, mi vengono in mente delle parole che scrisse Manlio Sgalambro: «Io, contemporaneo della fine del mondo non vedo il bagliore, né il buio che segue, né lo schianto, né il piagnisteo ma la verità da miliardi di anni farsi lampo».
Nel principio della polarità ho trovato la sintesi perfetta delle apparenze dualistiche che si celano e si palesano in ogni dove, esemplificate come una differenza di grado: tale principio è antesignano di quello taoista, quantomeno nella più grezza delle sue enunciazioni.
In tutti gli inviti (compreso quello delfico) a conoscere sé stessi, in tutti gli sproni che gli eventi, altri individui, le voci interiori o chissà quali altre entità forniscono ai più, ebbene in tutto questo io vedo l'inseguimento della capacità di cambiare la propria polarità: è tale prassi che considero quale vera padronanza di sé in quanto supera quest'ultimo e lo pone in accordo con ciò di cui fa parte. Il ricorso alla legge della neutralizzazione consente di elevarsi e lasciare sotto di sé certe oscillazioni benché queste continuino a operare: qui è chiamato in causa (e a questo punto direi anche come effetto…) il principio del ritmo.
C'è un avvertimento ne Il kybalion a cui attribuisco un'importanza pari agli insegnamenti ivi presenti e concerne il possesso delle verità, il quale «a meno che non abbia corrispondenza nel campo dell'azione è come l'accumulare metalli preziosi: cosa vana e sciocca». Più volte io stesso ho lamentato quanto un eccessivo nozionismo (e non necessariamente la verità) possa risultare nocivo qualora diventi autoreferenziale e non trovi sbocchi concreti, perciò mi chiedo se un tale monito non abbia il suo posticino negli archetipi di un inconscio sì collettivo, ma tra le fila di più "recente formazione", ovvero quelle che fanno capo alla civilizzazione poiché non vedo come si potrebbe adattare a quegli ominidi che "non distinguevano l'aurora dal tramonto".
È dunque scontato come ai miei occhi sia sublime la legge dell'uso la quale intima di utilizzare la conoscenza, altrimenti «chi la vìola, soffre, poiché si mette in conflitto con le forze naturali».

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