15
Lug

Al di là del principio di piacere

Pubblicato venerdì 15 Luglio 2016 alle 10:54 da Francesco

Freud riteneva la pulsione di morte un'ipotesi irrefutabile e il proprio pessimismo un risultato, a differenza dell'ottimismo dei suoi avversari che invece egli considerava una premessa.
Il principio di piacere è volto alla gratificazione immediata e al mantenimento di un basso livello dell'eccitamento, ma talora gli subentra il principio di realtà che dilaziona la gratificazione e si fa carico di una temporanea tolleranza al dispiacere per questioni di adattamento alle circostanze.
La pulsione di morte pare che sia la tendenza al ritorno allo stato inorganico, ovvero a quella fase primeva dell'evoluzione in cui la vita si instillò in una sostanza inanimata; una concezione del genere mette in discussione quella visione della vita che verte sulla ricerca dell'evoluzione, come nel perseguimento del superuomo di nietzschiana memoria, tuttavia è lo stesso Freud a sottolineare subito quanto possa risultare dolorosa la rinuncia a una credenza così consolidata. Fatico ad accettare in toto un tale postulato, ma escludo che la mia ritrosia sia d'ordine emotivo e la ritengo invece propria di un sano atteggiamento dubitativo. Invero dalla mia prospettiva atea non sarebbe per me gravoso accogliere l'idea di riassumere la vita nello scopo di morire, ma forse non ci riuscirei lo stesso in quanto mi sembrerebbe troppo bella perché fosse vera.
Alle luce di cotanta foschia il richiamo alla filosofia di Schopenhauer è un moto spontaneo a cui anche Freud fa cenno in un passo del suo scritto, precisamente quand'egli riporta le parole del filosofo tedesco sulla morte quale "vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita".
Mi domando se Thanatos, la pulsione di morte, sia davvero latente in ognuno di noi, ovvero in ciò che Jung chiama inconscio collettivo; mi chiedo inoltre se i capitoli più neri della storia della civiltà, non ultimo quello odierno del fanatismo islamico, siano da attribuire alla manifestazione di questo principio che, in determinate circostanze e presso certi gruppi, non trova gli ostacoli del principio opposto, cioè di Eros, la pulsione di vita. Ecco dunque che dietro ogni massacro può essere scorto il tentativo di riportare tutta l'umanità a ciò che fu in principio poiché "gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi".
Sono un uomo, mi ritengo empatico in un giusto grado e mi limito al mero esercizio speculativo di considerare la violenza senza fine come una mera coazione a ripetere, ma non faccio mia una tale veduta poiché non ne avverto l'autenticità; d'altro canto penso che sia importante lo sforzo di sospendere talvolta ogni tipo di emotività, blanda o parossistica che sia, affinché la lucidità possa operare nelle migliori condizioni possibili come un chirurgo in un ambiente asettico.

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6
Set

Crisi esistenziale nel senso di vuoto

Pubblicato sabato 6 Settembre 2014 alle 18:05 da Francesco

Dopo dieci anni la mia sublimazione è terminata e ora è come se dovessi combattere disarmato. Anche se continuo a correre e ad apprendere, non riesco più a dirottare in queste attività tutte quelle forze che invece esigono uno sbocco nella vita affettiva.
A trent’anni non so ancora cosa siano un bacio, un abbraccio, una scopata, non ho idea di come i sensi esultino nella piena complicità di due corpi. Non so cosa significa primeggiare nei pensieri di qualcuno, non conosco i brividi di un’intesa fisica e platonica. Posso contare su meno di dieci dita le volte in cui ho aperto il cuore, ma ogni volta ho pensato che ne valesse la pena e non me ne sono mai pentito. Potrei trovare dei rapporti carnali o delle amicizie femminili molto profonde senza troppi sforzi, ma mi deprime l’incompletezza che percepisco nei primi come nelle seconde e a questi rapporti imperfetti preferisco la solitudine perché mi nuoce di meno.
Per me è tutto o niente: io non conosco mezze misure ed è anche per questa ragione che ho sempre tagliato i ponti in maniera definitiva quando le cose non sono andate per il verso giusto. Un tempo mi bastava intensificare qualche allenamento o protrarre le mie letture oltre il solito per trovare subito sollievo e per instradarmi verso nuovi orizzonti, ma ora tutto ciò non funziona più e Freud aveva ragione: la sublimazione non può durare per sempre.
Non so dove sbattere la testa e sono in balìa degli eventi. Cerco di pensare il meno possibile e tendo gli addominali quando sento le fitte della frustrazione. Ovviamente questo stato emotivo m’indispone e così, anche se dovesse capitarmi l’occasione di conoscere una ragazza, non sarei in grado di mostrarmi per quello che sono, ma nel migliore dei casi potrei dare solo una pallida imitazione di me stesso. Non ho mai usato droghe, non ho mai fumato, non ho mai pregato, non ho mai assunto psicofarmaci e non ho mai bevuto alcolici, perciò non ho anestetici di alcun tipo ed è solamente la corsa che mi ha permesso di alzare la mia soglia di sopportazione del dolore.
Questa crisi esistenziale non dipende dall’ultimo rifiuto che ho ricevuto, bensì dal modo in cui mi ha indotto a fare un bilancio della mia esistenza e dalla sua concomitanza con la perdita della mia capacità di sublimazione.
Non c’è nessuno che possa aiutarmi perché devo uscirne da solo, ma è come se avessi le mani legate e qualche pensiero oscuro trova uno spazio in me che prima non avrebbe mai reclamato.
Ci sono parole note che mi ripeto : “Per te non sorga il giorno che alla tua gioia sia compenso di dolore […] sii forte e sereno anche nei giorni dell’avverso fato”.
Mi sento lo spettro di me stesso ed è come se non fossi mai esistito. Mi ritrovo ad affrontare ciò che sono riuscito solo a contenere per lungo tempo. Non trovo un appiglio, una direzione, fosse anche quella sbagliata. Ho soltanto la mia lucidità, tuttavia è anche attraverso quest’ultima che provo per intero le sferzate del senso di vuoto. Non mi piace il vittimismo e non voglio essere ingiusto verso me stesso, ma non posso neanche sottovalutare la portata di tutto quello che mi sta succedendo dentro. Ancora una volta Eros e Thanatos lottano instancabilmente.

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11
Mar

L’idea della morte

Pubblicato lunedì 11 Marzo 2013 alle 01:13 da Francesco

La crisi economica pone in risalto una putrefazione sempreverde, quella della psiche. La morte è il leitmotiv che non può più essere celato dal consumismo o dalla frivolezza, però smette anche di trovare come unico spazio la cronaca nera e così riguadagna i palcoscenici delle notti insonni. La paura del domani, le incertezze sul futuro, l’ombra della spada di Damocle: tutto ciò angustia chiunque sia cresciuto nell’illusione di potersene liberare con la buona volontà e solamente con questa. Il dramma dell’esistenza travalica i numeri di un conto corrente: su questo punto sono assai esplicite le casistiche dei suicidi dei paesi più sviluppati. Il clima di insicurezza e sconforto può aiutare il seme dell’autodistruzione a diventare una pianta rampicante verso l’oblio.
Vorrei che ogni individuo avesse delle garanzie materiali, quantomeno per dare a tutti accesso alle stesse possibilità, tuttavia mi domando se taluni sarebbero riusciti a conseguire determinati risultati se non fossero partiti da condizioni di netto svantaggio. La crudeltà della natura per me non è sottoponibile alla morale in quanto la precede e la prescinde, ma ai miei occhi resta uno spettacolo efferato che in qualche misura impatta sulla mia empatia. Non ho soluzioni da dare a terzi e non mi aspetto che altri possano averne per me. Di sicuro la clemenza è umana, ma non del mondo in quanto mondo, bensì in quanto proiezione consolatoria e salvifica.
La mia esistenza è mossa dalla spinta verso la vita e forse è proprio per questo che il pensiero della morte è così ricorrente in me. Per Seneca “è cosa egregia imparare a morire” e non vedo come dargli torto. Non sono eterno né voglio esserlo, ma qui semplifico la faccenda e non tengo in considerazione il finalismo, l’escatologia e tutto l’ambaradan dei pensatori o dei presunti tali. Mi confronto con l’idea della fine senza soccombervi ed è questo che mi appaga; ciò mi permette di condurre un’esistenza che mi auguro longeva, ma che in determinate condizioni potrei anche decidere di terminare anzitempo. Emil Cioran ha campato tanto e sosteneva che per lui la vita non sarebbe stata possibile senza l’idea del suicidio; a tutto ciò si riallaccia anche un libro che sto leggendo ultimamente, Il suicidio e l’anima di James Hillman che mette in risalto l’importanza di esperire la morte. Mi reputo fortunato a frequentare gli abissi con chi già ne ha scandagliato i fondali. Thanatos mi apre sempre di più all’amore, o forse alla sua idea: concretizzarla o meno non è così importante e credo che anche questa sia una delle ragioni per cui non mi pesa il perdurare dello stato virgineo, che è tale sia sotto il profilo platonico che sotto quello carnale. Queste non sono considerazioni meste, ma maestose: è imponenza, non impotenza.

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18
Gen

Lucidità, amore e morte

Pubblicato venerdì 18 Gennaio 2013 alle 13:55 da Francesco

A me pare che la crescente comprensione dei miei processi interiori mi appaghi in misura assai maggiore delle fantasie che costituiscono gli scheletri dei miei desideri più reconditi. In questo confronto di astrazioni noto un dominio della razionalità che per me non è affatto la traduzione di una resa incondizionata al vuoto della mia sfera emotiva, bensì un’ulteriore esaltazione delle mie potenzialità affettive.
È come se il tempo mi levigasse la personalità. Credo che in parte il mio equilibrio dipenda dalla disponibilità ad ascoltare le mie istanze e dalla capacità di spiegare a me stesso come mai non sono ancora in grado di accoglierle. In tutto ciò noto anche un legame stretto con l’evoluzione della mia idea di morte. Non in qualche trattato fumoso o dalle labbra ormai automatizzate di un decano della psicoanalisi, ma in me stesso ho avuto modo di capire quanto Eros e Thanatos siano legati a doppio filo. È come se in me quell’intuizione di Freud trovasse una sintesi sempre più in debito di tensione, però io non so quanto sia autentica né se abbia un’origine patologica. Considero la mia affettività in continua evoluzione benché non abbia mai avuto concretizzazioni e non mi sento privato di qualcosa. Mi vedo come un individuo in ritardo su una tabella di marcia che potrei forzare solamente se sapessi mentire a me stesso con la sufficiente convinzione o se avessi una lucidità inferiore a quella che invece cerco d’impormi tramite la scarnificazione dell’Io. Non compio sacrifici, ma faccio i miei interessi sebbene all’apparenza le mie azioni (e soprattutto la mia inerzia affettiva) diano l’impressione di un autolesionismo emotivo. Ho un vantaggio che sembra una condanna, ma non me ne preoccupo perché non devo mica venderlo in un bazar.

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