22
Feb

La parte maledetta di Georges Bataille

Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2024 alle 18:21 da Francesco

Nelle frequentazione postuma e cadaverica col pensiero di Georges Bataille ho trovato una certa consonanza, ma anche un ulteriore amico d’avello. Più che le carni, a me strappa un sorriso e un cenno d’assenso la sua visione della manducazione, della riproduzione sessuata e della morte come dei lussi: la prima perché evidenzia la maggiore complessità della catena alimentare ed energetica negli animali onnivori, la seconda in analogia col fenomeno della scissiparità e l’ultima, la morte, intesa quale maggiore tra i lussi in quanto dispendio rivelatore e trascendente. La cornice ovviamente non è quella della morale: è questione altra.
A mio parere ancor oggi si dimostra audace e suggestivo il concetto di dépense, così come attuali sono le implicazioni politiche ed economiche di cui è portatore, ma per me risultano più stimolanti le sue premesse etnografiche e la conclusione di Bataille col senso d’appartenenza a un certo misticismo. Mi vedo già fare un uso improprio anche di questo impianto speculativo per rivendicare e celebrare le beate distanze dai peggiori gravami dello zoon politikon.

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15
Set

Il mondo al contrario di Roberto Vannacci

Pubblicato venerdì 15 Settembre 2023 alle 15:00 da Francesco

È mio costume leggere con attenzione e ad alta voce, prassi che ho seguito anche per “Il mondo al contrario” del Generale Vannacci (rimandando l’inizio de “La parte maledetta” di Georges Bataille).
Non so se la mia copia sia difettosa e manchi di qualche pagina, ma non ho trovato né razzismo né omofobia e anche la misoginia risulta assente: forse non sono inclusi (ops, inclus*) nel prezzo e vanno aggiunti di propria sponte in base alla faziosità di riferimento. Chiunque decontestualizzi le frasi altrui compie un’opera meritoria giacché palesa agli altri la propria disonestà intellettuale. Per me pari(ah) sono coloro che hanno stigmatizzato o lodato “Il mondo al contrario” per partito preso: gente da cui guardarsi, gonzi di prim’ordine, danni collaterali del suffragio universale a prescindere dalle inclinazioni politiche. Lo scritto del Generale Vannacci raccoglie le idee di un uomo posato, convintamente democratico (questo per me è un difetto), pragmatico e ragionevole.
Nulla da eccepire su quanto afferma in merito alle energie rinnovabili, ossia un traguardo da raggiungere facendo però valere il principio di realtà, senza porre in essere quell’evirazione economica a detrimento dei ceti medi e meno abbienti di cui le sinistre progressiste (per me regressive) sono sostenitrici; ovvie e condivisibili le sue considerazioni in termini di giustizia, tasse e immigrazione: tutti questi argomenti sono suffragati da dati riportati come corollario e di cui ognuno può verificare motu proprio l’attendibilità. In oltre trecento pagine non vi è una sola virgola che possa indurre qualche magistrato a formulare un’ipotesi di reato, però immagino quale grande dispiacere ciò provochi lungo tutte le ZTL popolate dalla gauche caviar italiana. Il concetto di “normalità” evocato da Vannacci in merito all’orientamento sessuale fa leva su un dato statistico e non è un giudizio di valore né ha presupposti discriminatori, ma al contempo è una ghiotta occasione per chi voglia distorcere il significato delle parole pro domo sua: tanto chi se ne frega dell’autenticità, no?
Il pregiudizio diventa l’arma di chi millanta una lotta al pregiudizio stesso: questo cortocircuito mi fa pisciare addosso dalle risate. Dovrò cambiarmi il pannolone, ancora una volta.
Il Generale Vannacci non ha lo stile di Tommaso Landolfi e nel testo si succedono refusi (che ho appuntato in un file), un uso della di eufonica a me sgradito e qualche passaggio incerto, ma credo che il suo scritto non abbia intenzioni né vocazioni letterarie e quindi ogni critica esasperata alla forma mi fa sospettare che ci siano serie difficoltà a controbattere la sostanza.
Forse qualche “giornalista” non ha mandato giù il successo di un’autopubblicazione e può darsi che qualcun altro abbia dovuto accorgersi controvoglia di quale sia la maggioranza silenziosa del paese. Se Vannacci scendesse in politica io non lo voterei perché non credo nella democrazia, ma se facesse un colpo di stato avrebbe il mio pieno supporto.

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16
Giu

Il sé viene alla mente di Antonio Damasio

Pubblicato venerdì 16 Giugno 2023 alle 00:18 da Francesco

Qualche settimana fa ho terminato la gradevole lettura de Il sé viene alla mente, un saggio neuroscientifico in cui Antonio Damasio si avventura in una speculazione volta a rintracciare le fondamenta fisiologiche della coscienza. È un lavoro articolato, certosino, in cui ho trovato una buona esposizione con uno stile potabile, perciò fruibile anche da chi non sia un addetto ai lavori. I miei pochi e sparuti appunti non rendono giustizia al testo.
Nello scritto il sé è presentato come un processo diadico diviso in sé-oggetto e sé-soggetto, laddove il secondo deriva dal primo benché il sé-oggetto abbia una portata più limitata: tra i due vi è continuità e progressione, nessuna opposizione. I concetti di proto-sé (sentimenti primordiali), sé nucleare (relazione tra organismo e oggetto) e sé autobiografico (“pulsazioni” del sé nucleare) sono gli stadi che rappresentano l’ascesa del sé alla mente e quindi la nascita della coscienza.
In merito alla soggettività Damasio nega a quest’ultima un ruolo alla base degli stati mentali, bensì lo attribuisce alla consapevolezza della medesima: per quanto sottile, a me pare una differenza evidente. Le cosiddette percezioni sono indicate come effetti derivanti dalla capacità del cervello di creare mappe (le quali sono tripartite in enterocettive, propriocettive ed esterocettive): tali mappe pare che si originino in strutture subcorticali che risiedono nel tronco encefalico. A corredo di tutto riporto quanto mi ha fatto ridere di gusto per ragioni sulle quali evito di soffermarmi, ovvero l’affermazione inconfutabile secondo cui l’intenzione di sopravvivere che si trova nella cellula eucariotica è identica a quella implicita nella coscienza umana.

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25
Dic

L’egoismo è una pietra angolare

Pubblicato domenica 25 Dicembre 2022 alle 20:31 da Francesco

Mi affido alla lucidità di Max Stirner per raffreddare i timidi esordi di un inverno troppo mite, ma le sue parole risuonano in me e mi riportano alla mente convinzioni un po’ banali a cui già anni or sono pervenni autonomamente. Sono cosucce che amo ricordare a quanti pretendano d’irretirmi con i loro "associazionismi" di varia risma.
Per me l’umanità è soltanto una coazione a ripetere, molteplice espressione di un egoismo primario (e primevo) che talora assume aspetti edificanti, persino salvifici all’apparenza (appunto), mentre in altri casi si mostra con sembianze abiette, ma sempre in qualità di mentite spoglie a cui, per amor del vero, v’è da preferire le omologhe cadaveriche.
La prole è un frutto egoistico, l’altruismo è paradossalmente egoistico, la giustizia è un’idea arbitraria che cambia a seconda delle latitudini e difatti ogni potere ritiene la sua "sacra": insomma, un bel merdaio, no? La legge è sì uguale per tutti, ma per tutti quanti siano uguali tra loro (gendarmi, signori e signore dell’aeropago di turno, pubblicani di varia estrazione, ometti e donnette con un minimo di potere e via discriminando).
La specie e i suoi ergastoli chiamati "pargoli": che ilarità, che ridere, che defungere.

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16
Dic

In Patagonia di Bruce Chatwin

Pubblicato venerdì 16 Dicembre 2022 alle 00:10 da Francesco

Ottima penna quella di Chatwin: sagace, disincantata e con una grande proprietà di sintesi. Secondo me questi resoconti patagonici oscillano tra un taglio da saggio storico e una prosa alla Kerouac, in una commistione di stili che a mio parere giova al ritmo delle lettura.
Quella raccontata da Chatwin è l’Argentina più remota, agreste e ostile in un arco di tempo che abbraccia il secolo decimonono e il primo Novecento, in cui risuonano gli echi delle migrazioni europee, il latifondismo inglese, le differenze tra stranieri e autoctoni, l’impraticabile via della lotta di classe e gli avvicendamenti politici. Chatwin ha il doppio merito di dispensare caustica ironia nelle sue cronache senza che al contempo la prosa gli si riduca semplicemente a quello: in un efficace gioco di equilibri persino i molteplici cenni naturalistici risultano avvincenti e non promanano mero nozionismo.
Io consegno a In Patagonia un’ulteriore chiave di lettura ed è quella che verte sul modo in cui vengono delineati i profili psicologici di alcuni soggetti: in quelle descrizioni non vi sono soltanto i peculiari racconti di esistenze inconsuete, bensì sguardi acuti sulle ambizioni, i fallimenti e l’incomunicabilità d’umana fattura. Alla fine del viaggio nel viaggio (nessun refuso) trovo conferma del mio apprezzamento per questo tipo di letteratura odeporica benché non ne sia un accanito fruitore.
Ho scoperto che Werner Herzog, un regista a me caro, ha realizzato un film (Nomad) ispirato all’interessante figura di Bruce Chatwin, ma devo ancora vederlo e non mancherò di farlo (a meno che io non manchi tosto).

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24
Ott

Manuale del film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi

Pubblicato lunedì 24 Ottobre 2022 alle 22:13 da Francesco

In illo tempore mi ripromisi di approfondire il linguaggio cinematografico, difatti sapevo che se avessi maturato una fruizione più consapevole della settima arte avrei finito per apprezzare maggiormente la stessa: così è andata appena ho smaltito letture saggistiche per me prioritarie e, talora, più “pragmatiche”.
Avevo bisogno di qualche mezzo che mi permettesse di rendere meno soggettiva la mia esperienza di spettatore: alla fine ho scelto Manuale del film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi per affinare un po’ il mio gusto e sviluppare un senso critico con un minimo di fondatezza.
Da queste trecento paginette assai utili, le quali comunque non possono di certo considerarsi esaustive, ho attinto spunti per visioni inedite oltre alle nozioni di cui ero alla ricerca. Secondo me è un testo ben fatto, mai prolisso ed esemplificativo al giusto grado.

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2
Lug

Il lutto di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa

Pubblicato sabato 2 Luglio 2022 alle 17:33 da Francesco

La mia lettura più recente è stata quella de “Il lutto”, un saggio a quattro mani scritto da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa che si occupa dell’argomento da una prospettiva EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), ma il mio interesse non si è rivolto tanto a questo approccio terapeutico quanto all’analisi del fenomeno e quindi ai suoi caratteri più generali rispetto alla specificità di qualsiasi trattamento.
Per me approfondire il lutto è un espediente con cui esaminare a ritroso la composizione del desiderio e dell’attaccamento, qualcosa di simile a ciò che in informatica si chiama reverse engineering, ma almeno nelle mie intenzioni lo scopo precipuo è quello di mediare la questione attraverso una sorta di decostruzionismo alla Deridda.  
A mio parere tramite la comprensione dell’assenza si possono ricavare le ragioni di una presenza compiuta o auspicata e dalla loro correlazione è poi possibile risalire alla meccanicità del tutto, incluso il ventaglio di gioie e afflizioni che a mo’ di tachimetro emotivo indica quelle espressioni artistiche che siano improntate a un’inconsapevole automazione, come se il libero arbitrio fosse un prodotto di fabbrica, frutto di un’alienazione di marxiana memoria.
Ecco dunque che tra le pagine de “Il lutto” concetti quali quello di catessi, la subdola funzione dell’autorimprovero, il riordino del sé dopo l’evento traumatico, i correlati fisiologici di processi interiori e molto altro di analogo permettono di circoscrivere il campo d’indagine mentre al contempo ne stabiliscono i canoni: la sterminata (in molteplici accezioni) realtà diviene così più a misura d’uomo. In ultima analisi mi sono servito di questo testo per un fine diverso da quello che immagino fosse nelle intenzioni degli autori, nondimeno ne ho apprezzato l’utilità.

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17
Feb

I meccanismi di difesa di Robert B. White e Robert M. Gilliland

Pubblicato giovedì 17 Febbraio 2022 alle 22:45 da Francesco

Ho colto la lettura de “I meccanismi di difesa”, scritto a quattro mani da White e Gilliland, come un’occasione per passare in rassegna e approfondire dei concetti di cui ero già edotto, non ultimo quello di “permanenza oggettuale”, ovvero la capacità della quale i bambini sono sprovvisti fino ai diciotto mesi e la cui mancanza induce essi ad attribuire un’esistenza solo a quanto rientri nel loro campo visivo. Un altro punto capitale in apertura del testo riguarda la distinzione tra paura e angoscia con le loro differenti implicazioni, laddove la prima riguardi un pericolo concreto mentre la seconda abbia ragioni indefinite e una natura endogena.
Dopo queste e altre premesse nelle pagine si susseguono disamine ed esempi per tredici meccanismi di difesa di cui la rimozione figura come quello principale, difatti opera per escludere dalla coscienza un impulso insopportabile e il suo relativo ricordo, ma il materiale escluso (e anche questa nozione compone la parte introduttiva del libro) non ne decreta né ne riduce la portata, bensì lo tiene sotto custodia come se fosse un carcerato; a corredo di ciò aggiungo una celebre citazione di Freud che secondo me in una certa misura rimarca il concetto: “Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore”.
Oltre alla rimozione le forme di difesa sono la conversione, l’inibizione, lo spostamento, il diniego, la razionalizzazione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento dell’affetto, la regressione, la proiezione, il rivolgimento contro il Sé e la dissociazione: di queste tredici ve ne sono due (razionalizzazione e diniego) che fanno parte anche delle cosiddette cinque fasi del lutto, ma si tratta di una mia libera associazione più o meno corretta di cui il testo non fa menzione. Non è un volume corposo, consta di appena duecento pagine, ma tanto denso quanto utile per chi sia digiuno di tali nozioni e voglia meglio comprendere sé e gli umanoidi.

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4
Dic

Miti e simboli dell’India di Heinrich Zimmer

Pubblicato sabato 4 Dicembre 2021 alle 12:52 da Francesco

La mia lettura novembrina è stata quella di Miti e simboli dell’India, un saggio concernente aspetti della religiosità vedica a me già noti, ma di cui il testo di Heinrich Zimmer mi ha offerto ulteriori e interessanti approfondimenti. Basilare ma doverosa la spiegazione iniziale di come ogni ciclo del mondo per l’induismo sia ripartito in quattro età definite yuga e il cui avanzamento va di pari passo con un impoverimento del dharma, ossia dell’ordine morale.
Altra definizione capitale e precipua riguarda i concetti di maya e shakti, laddove la prima indica il mondo fenomenico, quanto è manifesto e illusorio, mentre la seconda è l’aspetto dinamico della prima che ne genera e ne alimenta le epifanie. Zimmer dà conto in più occasioni degli apparenti dualismi che attraversano l’induismo, perciò egli spiega come la shakti rappresenti il potere attivo di una divinità e ne sia la consorte o regina, in complementarietà e opposizione all’elemento passivo maschile (l’eternità): in un passaggio l’unione dei due viene descritta come autorivelazione dell’Assoluto.
Molte sono le pagine dedicate ai simbolismi e alla cosmogonia che mi hanno avvinto, ma è stata in particolare la storia del tracotante Jalandhara a colpirmi poiché il suo tentativo di prendersi in sposa Parvati fa compiere all’autore un parallelismo con il mito edipico, paragonando la consorte di Shiva a Giocasta al fine di sottolineare come il possesso della moglie di un sovrano risponda a un preciso rituale di potere e sia quindi scevro di tutte le implicazioni freudiane.
Sessuale, archetipico e fortemente simbolico è il linga, oggetto fallico d’elezione per il culto di Shiva in quanto energia maschile creatrice, ma il dio è anche distruttore e questa sua duplice natura viene esplicitata dalle principali danze che egli padroneggia: la Tandava e la Lasya.
La gerarchia delle divinità, la differenza tra Brahma e Brahman, i vari aspetti di Shakti (di cui a me piace molto la Kali nera) e, soprattutto, lo stato di prigionia al quale ogni individuo è costretto dalla propria Maya-Shakti (e quindi dalla cosiddetta nescienza) che egli stesso genera, sono altri elementi ivi presenti e stimolanti la cui lettura mi ha ricordato di nuovo quanto verso tutto ciò sia debitrice parte della filosofia occidentale. Duecento pagine spese bene.

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30
Set

La via per l’Oxiana di Robert Byron

Pubblicato giovedì 30 Settembre 2021 alle 10:34 da Francesco

I saggi storici di Hopkirk mi hanno indotto a soppesare La via per l’Oxiana, un libro di viaggio che ho finito per leggere con particolare piacere e coinvolgimento. Al di là della loro vocazione diaristica, anche nelle pagine di Robert Byron vi sono elementi di divulgazione in subordine alle vicende personali, una commistione questa che secondo me infonde un ottimo ritmo al testo e lo rende scorrevole benché sia piuttosto corposo.
La narrazione copre un arco temporale di undici mesi e comincia nel tardo agosto del 1933 in quella che una volta fu La Serenissima. Il modo di descrivere gli incontri e le situazioni, l’ironia più o meno velata con cui Byron rende conto delle proprie e delle altrui vicissitudini, così come lo stupore che talora prorompe dalla sua penna davanti a squarci paesaggistici o ad alcune opere architettoniche, a tratti mi hanno ricordato la scrittura di Tiziano Terzani al quale immagino che quest’autore non fosse sconosciuto.
Ho trovato interessante la sezione persiana che restituisce un’immagine del paese ancora lontana dalla rivoluzione di Khomeini, ma anche la parte dedicata all’Afghanistan mi è risultata utile per intuire da dove nasca e si trovi ancor oggi quella continuità che sta a fondamento dei suoi recenti “sviluppi”.
Mi ha divertito il giudizio negativo e inclemente di Byron sui Buddha giganti che furono scolpiti nella roccia a Bamiyan, infatti mi sono immaginato cosa egli avrebbe detto se avesse vissuto abbastanza per apprenderne la distruzione operata dai talebani nel 2001.
Oltre ai profili autoctoni, dal racconto emergono anche le tensioni politiche tra Russia e Regno Unito sebbene residuali rispetto a quelle raccontate dalla penna del già citato Hopkirk, perciò lo scritto contiene anche sporadici accenni al modus vivendi delle rappresentanze occidentali in un contesto così diverso dalle loro patrie. Per quanto breve, ho trovato pregevole e a mio parere stilisticamente eccelsa l’introduzione di Bruce Chatwin, un altro scrittore su cui prima o poi dovrò investire del tempo.
Come al solito, e per quanto possibile, ho integrato la lettura con la consultazione di mappe satellitari e fotografie recenti per ricavarne un’idea visiva dei luoghi descritti.

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