30
Ott

Di sfuggita al cospetto di Crono

Pubblicato venerdì 30 Ottobre 2020 alle 22:48 da Francesco

Mi chiedo se l’attuale annus horribilis voglia intrattenere con ulteriori giochi di prestigio il suo pubblico di candidati alla morte, ineluttabile protagonista sul fatiscente proscenio di un presente diroccato. Una claque di fantasmi e un sipario stracciato dalle intemperie.
Cosa si può regalare a chi abbia donato tutto se stesso? Io non mi sono mai trovato in una situazione di cotale altruismo e annullamento, invero neanche l’anelo, però compio uno sforzo empatico per capire la difficoltà di chi davvero debba trovare un piccolo presente per un siffatto individuo. Non sono votato alle cause perse né mi piace salire al volo sul carrozzone dei vincitori, tuttavia sarebbe buffo se le prime dirottassero il secondo: ecco, quello è uno spettacolo per il quale sarei disposto a saltare il mio unico pasto o a farne uno con il servizio a tavola dal distributore di merendine.
Non credo che l’assurdità dei tempi correnti vesta abiti poi così diversi dalle sue precedenti colleghe. Bene o male le cose sono sempre le stesse, però è sufficiente non crederle tali per viverle come inedite e primarie.
Non so se sia peggio uscire dal seminato o da un utero, ma di certo il corpo è una prigione che io curo come se fosse un tempio da lasciare in eredità agli agenti atmosferici. Per qualcuno non ha senso morire sani, come se l’organismo fosse soltanto il faccendiere dell’appagamento subitaneo dei sensi, per me invece il momento della morte è fondamentale e credo che dipenda molto da come sia stata condotta la vita, perciò io agisco in accordo con questa piccola convinzione. La mia è un’accortezza metafisica che ha tante buone ripercussioni sul piano ordinario dell’esistenza, ergo non ho proprio bisogno di consultare il libretto delle istruzioni né il manuale dell’altrui disfacimento. L’impalpabile pochezza dell’avvenire è visibile a occhio nudo, la verità invece mi pare assai più casta e pudìca.

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26
Ott

Al cospetto dell’Areopago

Pubblicato lunedì 26 Ottobre 2020 alle 23:16 da Francesco

Mi trovo al centro di una vicenda disgraziata, uno di quegli eventi annunciati che tante volte ho sondato con occhi e orecchie nei servizi di cronaca, ma sto affrontando la cosa con il dovuto distacco, con una forte vocazione all’atarassia e come se non mi riguardasse. Colgo quest’occasione per inseguire ancora una volta la phronesis nelle tenebre degli eventi e dunque nulla mi sorprende. Le difese immunitarie del mio spirito si sono sviluppate negli anni alle pendici dell’Iperuranio, sul pensiero dei grandi filosofi e in seno a un’efficace introspezione.
Legge e giustizia non combaciano sempre e talora risiedono agli antipodi delle cose umane, ma io non ho la facoltà di accorciare le loro distanze e dunque mi rimetto al volere degli dèi. Tutto accade per un motivo: o per insegnare qualcosa al diretto interessato o come risultato di un ritorno karmico. Osservo la prosaicità dei fenomeni ordinari alla luce accecante di una realtà superiore e non chiedo conto della seconda proprio come non pretendo di governare i primi in un’ubriacatura di controllo.
Sarà ciò che dev’essere, com’è sempre stato e come sempre sarà. Le miserie degli esseri umani sono forse le caratteristiche distintive della specie, almeno per quanti non protendano verso le possibilità più alte a loro disposizione. Potrei disquisire su cosa sia la società, per quali ragioni essa nasca e su quali premesse, ma ho disturbato tante volte il signor Hobbes che non me la sento di turbarne ancora il meritato riposo. Nulla permane, né la verità né quanto le si oppone ontologicamente, e questa certezza mi rasserena. Il resto va da sé, allo sbando, nel tempo che gli rimane tra le illusioni di un’attualità sempiterna. Mi raccomando il gallo a Esculapio.

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19
Ott

Un incipit e poco più

Pubblicato lunedì 19 Ottobre 2020 alle 17:30 da Francesco

Quello seguente è il testo iniziale d’un romanzo che non ho mai portato avanti e al quale ho deciso di negare ogni possibile sviluppo, perciò mi sono convinto a riversarlo su queste pagine virtuali.

Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina.
Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.
Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione trascurabile appena scorsi alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e il dramma di cui mi ero ritrovato traghettatore e testimone, ovvero alla differenza di situazioni così opposte e prossime. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?
Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.
L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.
Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia.
Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.
Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi assomigliasse di più a una gita fuori porta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.
La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.

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10
Ott

L’ottimismo della catastrofe

Pubblicato sabato 10 Ottobre 2020 alle 00:41 da Francesco

Nei paraggi intravedo soltanto ragioni di conflitto che mi sforzo di non raccogliere dai rami marcescenti di un albero già morto. Non è facile coltivare buone energie in un contesto simile, ma io provo a fare del mio meglio e mi tutelo con un isolamento proficuo. Non conosco maestri vivi da ascoltare né sussistono premesse affinché io possa stringere alleanze di qualunque tipo: la traversata procede in solitaria e così ho tutto lo spazio per stare comodo nel mio tempo.
Un insolito ottimismo e una piacevole leggerezza aleggiano attorno a me, come se formassero uno strato di ozono contro le radiazioni altrui, ma al contempo il loro grado aumenta mentre il mio pensiero si distanzia sempre di più da certe pastoie e tutto ciò mi fa sentire in solipsistica espansione. Questo processo non avviene per mia diretta emanazione, bensì è l’effetto di molteplici cause su cui non ho pieno controllo e di cui apprezzo l’autonomia. Non ci sono punti fissi, però non sussiste neanche più la vaga esigenza di trovarne e per quanto mi riguarda può crollare la montagna con tutti i suoi possibili appigli. Sono attrezzato per ogni evenienza, foss’anche l’ultima. Si salvi chi può, ma soprattutto chi proprio non può. Se qualcuno capitasse su codeste parole dovrebbe portarsi a casa il mio migliore augurio per ciò a cui tiene tanto.
Io sono servito, come dicono i giocatori d’azzardo che hanno una buona mano, ma non abito in un castello di carte né passo il tempo a realizzarne e comunque mi alzo dal tavolo perché non voglio essere della partita. Non ho mai nutrito grande interesse per le zappe e non ho mai provato invidia verso chi si diletta a darsele sui piedi.

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1
Ott

La ricerca di senso non è pervenuta

Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2020 alle 00:30 da Francesco

Traggo ispirazione dai rapidi pensieri che si avvicendano nei miei sobborghi corticali e così sopravanzo la stanchezza serale. Mi rallegra l’atmosfera da disastro imminente che aleggia in ogni dove e la respiro come se non mi riguardasse affatto. La fine è inevitabile, altrimenti se così non fosse qualunque inizio subirebbe un vulnus cronologico. Non ho bisogno di piegarmi alle regole del tempo più di quanto sia già previsto dal grado di realtà nel quale soggiorno attualmente, perciò evito di appesantirmi troppo prima di prendere sonno per sempre.
Le incertezze del domani sono le figlie viziate del presente ed è per questa ragione che io caldeggio la sterilità a tutto tondo. Una soluzione può esistere soltanto a fronte di un problema, perciò chi voglia la prima è costretto a porsi il secondo e non di rado tale processo scaturisce dalla noia piuttosto che da cause di forza maggiore. Talora mi pare che certuni vivano il tempo come un’emorragia da tamponare con qualunque mezzo, foss’anche dannoso od ostativo. Sono così disabituato al possesso di alcune illusioni che non ne rammento i meccanismi, quindi mostro sempre un po’ di stupore al cospetto della loro puntuale efficacia. Se avessi un consiglio da dispensare forse lo terrei per me poiché mi mancherebbe comunque l’indirizzo a cui spedirlo. Posso dialogare con me stesso, in un monologo di proporzioni soggettive, a mio uso e consumo, nel nome del mio nome e di quanto può essere ascritto all’identità che mi sono costruito su convinzioni biodegradabili. Non mi manca nulla di quanto non ho mai avuto e mi chiedo se la cosa sia reciproca, ma l’ordinaria equidistanza tra le entità in oggetto assume un velo di silenzio come supplente d’una risposta incompleta. Non ho idea di quale sia l’entrata del mio mondo, invero non so neanche se io abbia lasciato il portone o l’occipite aperti, ma qualora qualcuno volesse entrare può bussare a se stesso per sentire gli echi dei propri vuoti e così desistere dall’idea di improvvide spedizioni. Non mi assumo le responsabilità degli altri, ognuno stipuli i suoi contratti con le rispettive dipendenze: io, per mia fortuna, non ne ho né ne voglio. Qual è il senso di tutto questo e di tutto quello che questo non è? Se di tale domanda m’importasse davvero qualcosa allora me la porrei di proposito per non trovarle risposta, ammesso poi che ve ne sia una sul mercato.

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