28
Dic

Del morire

Pubblicato mercoledì 28 Dicembre 2016 alle 18:59 da Francesco

Mi sorprendo di fronte a quanti si sorprendano per la sorpresa di una morte sorprendente, ma il mio è un atteggiamento di tenero disincanto. Forse i decessi illustri ricordano più di altri come ognuno di noi sia anzitutto la propria finitezza. Mi domando se per qualcuno sussista davvero la piena illusione che l’opera sua possa garantirgli una vita dopo la morte, come se per i meriti del suo percorso terrestre ambisse poi da salma a chiedere asilo presso gli altrui ricordi.
Salvo rare eccezioni, la quasi totalità degli esseri umani è destinata alla completa dimenticanza in capo a qualche generazione, ma talora ciò avviene già dalla nascita stessa e molti orfani lo potrebbero confermare se solo qualcuno si ricordasse di loro.
Non ho nulla contro qualsiasi tipo di commemorazione dei defunti, ma per me il due novembre è, appunto, il due novembre; semplicemente mi annoiano certe celebrazioni e io stesso mi auguro di non esserne mai oggetto, benché, invero, il rischio nel mio caso sia pressoché nullo.
Preferirei essere apprezzato da vivo piuttosto che da morto, ancorché io preferirei non essere e basta. Nel caso di una mia morte prematura ho lasciato precise disposizioni, tuttavia so già che queste sarebbero prontamente disattese. Se crepassi relativamente presto vorrei tanto che il mio corpo fosse gettato in mezzo a un campo incolto, cosicché i vermi possano banchettarvi in tutta comodità. Dunque per la mia carne non vorrei né sepoltura né cremazione, ma soltanto l’abbandono alla terra: è questa un’immagine che nella mia mente chiude un cerchio e assume tinte di titanismo romantico. Insomma, una volta decaduto, che l’ex impero dei sensi sia scisso tra i suoi atomi d’idrogeno, azoto, ossigeno, carbonio, in una spartizione simile a quella che era in uso tra i figli dei re Franchi. Sono venuto per poco e, nessuno me ne voglia (circostanza di cui non dubito), spero di non tornare troppo presto su questo pianeta.

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20
Dic

Luminarie e terroristi

Pubblicato martedì 20 Dicembre 2016 alle 19:53 da Francesco

Non sono sorpreso da quanto è caduto ieri sera a Berlino e credo che gli attentati stessi siano ormai entrati di diritto (internazionale?) nell’ordine delle cose occidentali. Ho invece percepito un taglio quasi cinematografico nel suggestivo filmato che ha esibito l’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara, tuttavia non ricordavo che Gravilo Princip fosse così elegante.
Gli inevitabili cambiamenti del mondo, le tensioni mai sopite in Medio Oriente e il pericolosissimo terzomondismo di certi politici europei stanno alimentando un dialogo babelico, difatti oltre alla lotta intestina dell’Islam, che si sovrappone alla guerra civile in Siria, vi sono pure, benché meno cruente, guerre tra poveri in quelle periferie che tanto agognano i migranti con le loro illusioni.
Considero quest’epoca un’ennesima fase di conflitti apparentemente insanabili, ma credo che come di consueto soltanto il tempo abbia la facoltà (ancorché invero gli è inevitabile per sua stessa natura) di dirimere le faccende terrestri; suppongo che storicamente non esistano dei problemi, tutt’al più cronologie, ma umanamente la tragedia è quotidiana.
Non mi meraviglio che déstino più stupore dodici morti in Germania di tutti i civili trucidati senza pietà in quel carnaio di Aleppo, anzi trovo normale una simile veduta e non azzardo una tale affermazione per incasellarla nel bene o nel male. Ogni vita ha lo stesso valore, però v’è anche un altro indice ed è quello che è stabilito dai singoli, o da un intero popolo qualora questo venga inteso come una singola massa: tale valore soggettivo dipende, appunto, dal soggetto. Non è possibile obbligare chiunque a convincersi che la morte di un suo caro, o anche solo di un suo connazionale, debba suscitargli lo stesso sgomento del decesso di un individuo per il quale egli non prova alcuna vicinanza culturale, geografica o d’altro genere: un simile ragionamento non è appannaggio di un parte del mondo, ma , con tutte le sfumature empatiche di cui rendere conto all’ampia gamma dei caratteri umani, appartiene a moltitudini di individui e ho ragione di ritenere che l’uguaglianza più profonda del genere umano si manifesti proprio in ciò.
Per quanto mi riguarda vorrei che i confini fossero definiti e difesi, mi piacerebbe assistere a una stretta sui flussi migratori e gradirei oltremodo che le nazioni sapessero mantenere le proprie identità, ma la storia va da sé e non concede favoritismi a chi non sappia strappargliene.

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18
Dic

Una nuova introversione

Pubblicato domenica 18 Dicembre 2016 alle 19:49 da Francesco

Il calendario gregoriano è sul punto d’indicare un nuovo anno, però è come se il passaggio del tempo non tangesse certe cose. Negli ultimi dodici mesi ho cercato di coltivare un legame che è morto ancor prima di nascere e ho provato ad agevolare delle collaborazioni di cui il nulla si è rivelato la massima espressione. È come se mi fossi votato alla vana ricerca di punti vitali in un tessuto necrotico. Non voglio lasciare intendere che io abbia perso del tempo, anzi, tali tentativi erano necessari proprio perché mi diagnosticassero la totale incapacità di instaurare sinergie di qualsiasi tipo. Vivo in una realtà piuttosto ristretta e non posso pretendere poi molto, però non mi dispiace questa dimensione perché ha molti pregi e di conseguenza lascio ad altri le grandi, molteplici e alienanti possibilità metropolitane: sono scelte.
Per me è giunto il momento di una nuova introversione, ma so che anch’essa prima o poi finirà il suo ciclo. Di fatto sono sempre stato solo, ma ho vissuto i miei momenti migliori ogniqualvolta io mi sia sentito tutt’uno con un isolamento proficuo: tale beata condizione non si può manifestare per me qualora io mi riveli aperto al mondo, fosse anche solo come mera disposizione d’animo. Come tanti, anche a me non è dato sapere quanto mi resti da vivere, perciò voglio utilizzare nel migliore dei modi il tempo che mi rimane da spendere su questo pianeta. Avrei voluto che certe dinamiche si fossero dipanate diversamente, però credo che il bello della vita risieda proprio in questi suoi rigurgiti anarchici. Ho molte cose da imparare, molte altre da esperire sul tappeto della mia stanza e qualcuna da cui farmi sorprendere. Non mi chiudo in me stesso come forma di difesa, e questo è attestato da come io più volte abbia offerto il petto alle lance di turno, difatti non sono un riccio né un malato di Asperger, Ecce Homo tutt’al più, ma la solitudine si dimostra il mio humus ideale. Non oso immaginare quali rimostranze oniriche mi volgerà l’inconscio, perciò mi limiterò a sognarle e, con gli sporadici aiuti della memoria, a scriverne.

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15
Dic

Archivio onirico: sogno n° 28

Pubblicato giovedì 15 Dicembre 2016 alle 14:41 da Francesco

Qualche giorno fa ho sognato di correre una maratona, però finivo sempre per perdermi e non c’era nessuno che m’indicasse la strada da seguire. Provavo una profonda frustrazione e in più ero preoccupato perché sapevo che ogni contrattempo mi rubava dei minuti importanti.

Questo breve sogno è talmente esplicito che forse non abbisogna di alcuna spiegazione, però credo che talora anche alle ovvietà possano spettare delle opportune sottolineature.
La maratona è la vita, e corro l’una così come vivo l’altra, però mi sento perso perché non ho un legame forte e questa assenza è comprovata nel sogno dalla difficoltà che incontro a reperire le informazioni sulla strada da seguire. Non c’è nessuno che sappia indicarmi dove andare, o che pronunci anche solo un suggerimento: parimenti non ho altra voce amica che non sia la mia e se mi trovassi in un quiz televisivo dovrei farmi ubiquo per chiedere l’aiuto da casa.
Ravviso tuttavia un aspetto meno scontato in questo sogno poiché esso non finisce con una resa, inoltre la maratona rappresenta lo sforzo di andare avanti che interpreto come tendenza evolutiva, o, per usare termini junghiani, come il perseguimento del processo di individuazione. Insomma, l’inconscio non mi sta comunicando nulla di nuovo, però ciclicamente si scomoda per bacchettarmi in merito alla mia desertificazione sentimentale. It happens.

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9
Dic

Essere e tempo di Martin Heidegger

Pubblicato venerdì 9 Dicembre 2016 alle 13:23 da Francesco

Mi è occorso circa un mese per leggere e studiare “Essere e tempo” di Martin Heidegger, testo da cui mi ero ritratto qualche anno fa dopo lo sciagurato incontro con l’edizione di Mondadori, tuttavia ho optato per un suo secondo approccio quando, in quel di Torino, mi è capitata fra le mani la nuova edizione di Longanesi che si basa sulla storica traduzione di Pietro Chiodi.
Non che prima l’esistenzialismo o i concetti della filosofia di Heidegger mi fossero estranei, però ne lamentavo una visione d’insieme che fosse più organica. Un testo di questa portata richiede anzitutto una minima padronanza delle espressioni che sono state coniate all’uopo, talora ex novo da Heidegger stesso, nonché di quei termini ai quali egli dà accezioni diverse da quelle che sono invalse: ovviamente tutto ciò con lo scopo di superare i limiti linguistici.
“Gettatezza”, “intratemporalità”, “essere-nel-mondo”, “deizione”, “poter-essere”, “essere-per-la-morte” e il resto del vasto armamentario polisemantico che un’ardua ma efficace traduzione ha comunque reso accessibile anche a chi, come il sottoscritto, non conosce il tedesco. V’è un’intricata rete di rimandi che rende tutt’altro che facile l’assimilazione di quest’impianto filosofico, ma d’altronde non può essere altrimenti ed è come se questa stessa difficoltà ne fosse una parte costituente. Per quanto ostica, la lettura di “Essere e tempo” mi ha mostrato tutta la sua imponenza, però non si presta a quella dissezione aforistica che rende fruibili altri pensatori, ancorché al costo del loro pensiero. Pare che Nietzsche filosofasse con il martello, invece Heidegger, a mio avviso, lo fa con lo stesso trasporto con il quale un anatomopatologo redige un referto, ma proprio le analisi asettiche e lo stile didascalico del secondo mi catturano più delle evocazioni letterarie del primo. È pure vero che l’ontologia ha per sua natura un tratto che non agevola un certo tipo di digressioni, ma anch’essa può avere i suoi momenti di prosa.
Nel concetto di “essere-per-la-morte” ho rinvenuto una vaga affinità con un’idea che da tempo albergava in me, sebbene io vi sia giunto per altre vie e ne abbia raccolto solo una forma grezza. Di primo acchito il postulato della “deiezione” assomiglia a una delle tante critiche che taluni, a torto o a ragione, muovono puntualmente verso il cosiddetto volgo, però non è tale perché si trova su un piano diverso da quello in cui abitualmente scivola l’alterigia in materia di società. Uno dei cardini di “Essere e tempo” risiede nel concetto di Cura e nella sua immediata suddivisione tra prendersi-cura degli enti e l’aver-cura degli altri, anche se a me questa pare che sia una pietra angolare solo perché dev’esserlo per forza di cose: e per cose non intendo semplici-presenze. Ammesso che il punto di partenza sia l’Esserci nelle sue modalità di essere, ovvero autentica o inautentica a seconda che la chiamata della coscienza sia accolta o meno, uno dei punti di arrivo (seguendo l’ordine dell’esposizione) non può che essere la temporalità da cui deriva il concetto ordinario di tempo; è a tal proposito che verso la fine del libro ho letto un passaggio per me fondamentale: “Il prendersi cura quotidiano trova il tempo presso l’ente intramondano che incontra”.
In quanto ho appena scritto si staglia la tirannia del Si impersonale, però è improprio qualsiasi parallelismo con quel vago desiderio di affrancamento da uno stato non meglio precisato che si riscontra altrove, difatti Heidegger si astiene da giudizi di valore, o almeno io non ne ho colti.
Non si possono riassumere cinquecento pagine di una simile portata in poche righe dall’incerta successione, tuttavia ne bastano anche di meno per incensare un testo capitale nella filosofia del novecento e di cui ancor oggi si sente la forte eco. Non m’illudo certo che io abbia fatto del tutto mia quest’opera, per altro incompleta e gravata dal peso dei miei numerosi post-it, ma ne ho ricavato abbastanza per compiere un ulteriore balzo esistenzialistico verso Sartre.

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1
Dic

La riforma della costituzione

Pubblicato giovedì 1 Dicembre 2016 alle 23:49 da Francesco

In ogni contrapposizione vedo una forma d’intrattenimento, perciò la trovo anche in quella dove l’ilare sussiego di un’opinione ricava la sua ragione d’essere da ciò che nega.
Più che una riforma costituzionale vorrei l’abolizione di ogni costituzione, in ogni suo significato, da quello legislativo a quello biologico. Peccato che simili propositi siano materia esclusiva del tempo. La perentorietà di due avverbi olofrastici, a ciò si riduce tutto, almeno fino a quando non cesserà il silenzio dei vivi e non resterà che quello dei morti.
Già che ci sono (ahimè) anch’io svolgo il mio ruolo in quel teatro dell’assurdo che è l’esistenza umana in seno a una società organizzata, ma lo faccio più per gioco che per senso civico e per altro non escludo che il secondo sia un perno del primo. Voto no perché i pochi punti buoni della riforma non inducono il mio senso critico a mostrarsi di diverso avviso. Non credo agli eventuali pericoli di derive autoritarie perché tutt’al più queste otterrebbero così un loro riconoscimento scritto. Sono ragguardevoli e pittoreschi i fenomeni di dissociazione che scompigliano le priorità di un organismo cagionevole come una nazione, ma questo è il grande spettacolo al quale ogni madre consegna la propria prole. Per quanto in questo caso sia convinto del mio no, credo che a una costituzione fatta col sangue non possano nuocere poi tanto delle modifiche di merda.

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