26
Mag

Gestalt

Pubblicato martedì 26 Maggio 2015 alle 08:12 da Francesco

Tempo fa la psicologia della Gestalt e il suo approccio olistico nell'analisi della realtà mi hanno fornito lo stimolo per approfondirne le speculazioni. A tale riguardo ho letto un libro di Gaetano Kanizsa, "Grammatica del vedere", e la parte che più ha suscitato il mio interesse è stata la spiegazione della differenza tra vedere qualche cosa e pensarla.
Di primo acchito una simile precisazione può sembrare scontata, pleonastica e tautologica, ma secondo me offre più di qualche spunto e trovo una prima conferma di quest'idea nella difficoltà d'operare una distinzione abbastanza netta tra le due attività in esame. Qualcuno per ovviare a questo problema ha proposto di ritenere pensiero e percezione due fasi dello stesso processo, ma secondo me Kanizsa ha giustamente liquidato tale espediente come una scotomizzazione.
Quando l'occhio incontra una parola a cui mancano una o più lettere questa viene comunque letta come se fosse stata scritta correttamente, di conseguenza da un esempio così classico si evince quanto il cervello vada al di là dell'informazione fornita e personalmente trovo questo punto già sufficiente per sposare la prospettiva gestaltista. Un altro argomento a favore di tale posizione fa leva sui cosiddetti criteri di completezza che agiscono in modi diversi sul pensiero e sulla percezione: con una breve ricerca sul web è possibile raccogliere numerose immagini tramite cui capire come, ad esempio, la simmetria sia una discriminante preminente nel pensiero e risulti secondaria nel campo delle percezioni, dove invece la convessità e la continuità di direzione assumono un'importanza maggiore. Dell'ulteriore acqua al mulino di Kanizsa è portata dagli innumerevoli fenomeni di completamento amodale, ovvero quei casi in cui ciò che viene visto non ha una corrispondenza fenomenica, ma questa è resa a livello cognitivo: insomma, di ciò che manca si occupa l'intuito. Se volessi approfittare dell'occasione per essere semplicista e categorico potrei affermare che non occorre la psicologia della Gestalt per sapere che niente è come sembra, però la questione è un'altra e pone l'accento su come la realtà oggettiva venga mediata nel soggetto da fattori di vario genere che gli sono intrinsechi, non ultimi quelli emotivi.
A mio modesto avviso in alcune trattazioni la straordinarietà non risiede nelle teorie proposte o nei grandi impianti speculativi che le sostengono, ma nella capacità di comprendere davvero cosa implichino e come si ripercuotano nella vita d'ogni giorno.

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23
Mag

Spostamento verso il rosso (redshift)

Pubblicato sabato 23 Maggio 2015 alle 09:15 da Francesco

Un tempo le pareti della mia stanza tacevano e arrossivano a causa della timidezza, ma poi il loro colore si è fatto sempre più intenso grazie allo spirito di emulazione per le supergiganti da almeno dieci masse solari: il silenzio invece è rimasto sempre uguale, cosmico anch'esso, ed è solo il mio modo di percepirlo che è mutato nel corso delle sfumature anzidette.
Talvolta le mie carni si fanno nottivaghe e s'illuminano (in realtà vengono illuminate) dalle luci arancioni che fin dal tardo pomeriggio reclamano uno spazio nell'oscurità, come chiunque altro dai suoi primi vagiti e da tutto il resto che poi da lui (e in lui) albeggia irrimediabilmente.
Mi sottopongo a qualsiasi grado di giudizio, nelle sedi opportune, in quelle che sono già andate a fuoco e dove un principio d'incendio è quantomeno possibile. In certi momenti vivo come se la realtà circostante fosse fatta di cartongesso e mi lascio cullare dall'idea della fine (che fine non è, né l'idea né la fine in sé) o forse sono io che l'accarezzo poiché mi è ancora possibile farlo.
In me pulsano intuizioni fortissime. Ho anche slanci di spensieratezza che ridimensionano tutto l'apparente sussiego di cui mi rendo colpevole, ma sono anche innocente fino a prova contraria, ovvero quella per cui ogni cosa ricade nel suo opposto: enantiodromia.
Azioni, parole, esperienze o un immobilismo incompiuto, che rasenti lo stato vegetativo e lasci sfogare i bambini (il proprio puer), non come i muscoli striati che sono strigliati dalla volontà: a ciò riduco l'esistenza e non mi pare poco. Già da stamane col rosso di sera…

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17
Mag

Consonanza

Pubblicato domenica 17 Maggio 2015 alle 23:34 da Francesco

Ho cenato con dei baldi giovani che in altri tempi sarebbero stati devoti a Dioniso, ma in quanto astemio non ne ho condiviso l'ebbrezza. Alla stessa tavola, dove ho mangiato tre ottimi primi piatti per evitare carne e pesce, mi sono ritrovato a parlare con la compagna d'un commensale.
Non immaginavo che costei avesse un tale insight e per un certo arco di tempo ci siamo isolati in una discussione molto interessante: è come se lo scontro delle nostre parole avesse innescato una tempesta cosmica. Noi parlavamo di archetipi e solitudini maestre mentre il rumore di fondo andava componendosi di dibattiti calcistici, battutine da caserma e bestemmie forzate.
Lei conosce la mia visione del mondo e, senza alcuna malizia, ma con quella che io ho percepito come sincera stima, mi ha volto un plauso per i miei intenti poiché vi ha rivisto i suoi.
La sua approvazione non ha avuto presa sulla mia vanità e l'ho considerata più un dato di fatto o un segno di riconoscimento che altro. D'altronde se si fosse trattato d'un mero complimento per me sarebbe stato insignificante: niente di più e niente di meno di un'osservazione analoga che mi si possa rivolgere quando ho i bicipiti in ipertrofia o gli addominali definiti.
Ad un certo punto quest'ottima interlocutrice mi ha detto che per la prima volta era riuscita a farsi capire da qualcuno su un determinato argomento e subito dopo (o forse prima, ma cosa può mai contare l'apparente linearità del tempo?) con un cenno alla filosofia tedesca ho inviato Nietzsche al nostro tavolo; "Quando guardi a lungo nell'abisso, l'abisso ti guarda dentro".
Per me quella non è una semplice citazione con cui darsi un tono né tanto meno un aforisma con il quale riempirsi la bocca in mancanza di meglio, bensì costituisce una realtà, un'esperienza diretta, perlomeno nell'interpretazione che io ne azzardo.
Volgersi verso l'abisso per me significa guardare dentro di sé, correr l'alea dell'introspezione, in quanto guardarsi dentro può rendere ciechi (per parafrasare il titolo di un bel saggio).
L'abisso che guarda di rimando non è altro che la propria immagine riflessa e il pericolo è quello di non riconoscercisi fino al punto di perderci il senno, perciò chiunque scelga o si ritrovi su una certa via è chiamato all'improba fatica di scoprire quanto più può chi davvero egli sia.
A parte questa lodevole e opportuna digressione, il mio dialogo con la banchettante di cui sopra s'è poi snodato in ulteriori vicoli ciechi (poiché questioni d'un certo ordine sono insolubili), e vi ho trovato un'intesa rara a cui non è seguita alcuna forma d'attrazione benché si tratti senz'ombra di dubbio d'una donna avvenente: nulla è scattato in me perché lei è occupata e io non sono affascinato né platonicamente né fisicamente da chi già costituisce la metà di qualcun altro.
Ancora una volta gli dèi si prendono gioco di me ed è per questo motivo che io voglio arrivare quanto più vicino possibile alle porte dell'Olimpo, così da avere l'occasione di incontrare in quei dintorni un'incarnazione della Venere Callpigia. Se mai qualcuno dovesse starmi accanto io le riconoscerò una natura semidivina poiché tutte le mie lotte interiori così la incoroneranno, e di un'origine talmente ibrida saprò vivere tutto. Intanto la battaglia si annuncia ancora lunga.

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13
Mag

Archivio onirico: sogno n. 21

Pubblicato mercoledì 13 Maggio 2015 alle 17:12 da Francesco

Forse negli ultimi giorni non mi sono esposto alle influenze giuste o forse certe volte, malgrado tutti gli sforzi per condizionarlo, l'inconscio non trova altre maniere che le cattive per veicolare i suoi contenuti. Il sogno di questa notte è stato inquietante nella forma e triste nella sostanza, ma l'oracolo si è espresso e a me non resta che prendere atto dei suoi annunci.

Mi ritrovo in una classe universitaria che siede all'aperto: i banchi e la cattedra sono sistemati vicino alla curva di una strada dove in quest'ultimo periodo passeggio spesso. Provo un po' di angoscia perché non sono uno studente e temo che la professoressa possa scoprirmi. Accanto a me siede un mio stretto conoscente, noto casinista: d'un tratto egli si alza e va a disegnare un volto su una parete rocciosa che funge da lavagna. La docente rimprovera il suo allievo indisciplinato ed entrambi iniziano a discutere con veemenza, però non capisco cosa si dicano.
I due sono ancora intenti a parlare quando io mi vedo dentro il prototipo di un nuovo treno che è diretto a Madrid: accanto a me siede una ragazza che non conosco e il cui fascino tuttavia mi pare familiare da tempo immemore. Il desiderio divampa.
Inizio a parlare con la mia vicina e dopo una lunga chiacchierata lei mi dice: "Il mio posto è qua". All'improvviso un responsabile del mezzo inizia a inveire contro un suo collega e a bordo scatta il panico perché un dispositivo del locomotore è fuori controllo: il viaggio di collaudo si appresta al disastro. Dopo poco il treno deraglia e si capovolge più volte. Vedo qualcuno che esce illeso dall'incidente e corre lungo una banchina (evidentemente tutto è avvenuto a… destinazione), perciò immagino che mi sia messo in salvo, ma quando guardo in faccia chi fugge mi accorgo che non sono io quello che l'ha scampata e allora capisco di essere morto. Mi risveglio di colpo.

Il contenuto di questo sogno funesto attiene non già all'amore, bensì a quanto può precederlo, ovvero quell'intima conoscenza tra individui che nelle sue massime espressioni sa scavalcare muri invalicabili e persino coloro che con pazienza certosina ne sistemano ogni mattone.
L'ambiente universitario chiama in causa una persona precisa che intuizioni tanto intraducibili quanto attendibili mi fanno ritenere molto affine a me, quasi che in una vita passata ci fossimo dati appuntamento in questa.
La mia paura di essere scoperto dalla professoressa come infiltrato simboleggia il contrasto che v'è sempre stato tra me e gli ambienti preposti all'insegnamento: è la mia totale repulsione per simili contesti. Il completo disinteresse per le dispute di quei mondi è rappresentato dalla piena noncuranza con cui sfuma la scena dell'alterco tra il mio conoscente e l'insegnante.
La ragazza che trovo in viaggio è come se fosse una vecchia conoscenza benché di fatto ne sappia poco. Il nuovo prototipo del treno indica modi inediti di rapportarmi alla mia vicina, figli di una evoluzione personale e dell'assestamento di alcune convinzioni che solo da poco hanno trovato in me la loro piena quadratura, tuttavia il disastro che ne segue conferma come ogni tentativo vecchio o nuovo sia destinato a fallire miseramente: o forse no.
"Il mio posto è qua", mi dice costei prima del disastro: ovvero ovunque meno che accanto a me perché io non resterò là. L'incidente avviene dentro la stazione in quanto ognuno volente o nolente raggiungerà la propria meta, cioè la morte, tuttavia è la maniera in cui ciascuno vi arriverà che farà la vera differenza. Quest'ultimo punto secondo me è anche un monito che l'inconscio mi volge affinché io continui a trovare ogni senso dentro di me, come se di fatto fossi già morto, ma per ragioni di sopravvivenza emotiva e non per partito preso: ciò si accorda con le immagini finali di questo episodio onirico.
Mi devo guardare da un possibile errore in d'interpretazione, difatti se mi piegassi alle lusinghe delle difese regressive finirei per credere che il mio compito sia quello di chiudermi in me stesso e userei tali spunti per avallare una condotta autodistruttiva, ma in realtà devo fare l'esatto opposto, in tempi e modi che siano in accordo con la parte più autentica di me e con il corso degli eventi. Il cuore deve restare aperto, spalancato, anche se alla fine, oltre la sua soglia, non restasse altro che una città fantasma, forse mai fondata.

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11
Mag

All’insù

Pubblicato lunedì 11 Maggio 2015 alle 05:43 da Francesco

Ero in procinto di sostenere un aspetto della Gestalt a discapito del comportamentismo, ma poi ho lasciato perdere: ne avrei scritto qualcosa solo se fossi riuscito a iniziarne la stesura con la ferma intenzione di eliminarne tutte le parole, compresa l'ultima. L'arte di disfare e il gusto dello sfacelo non mi appartengono, ma ora non ho la benché minima voglia di sterili speculazioni sulla profonda diversità che vige fra due verbi di abuso comune: vedere e pensare.
Ho bisogno di esperienze mistiche e non di frasi, neanche di quelle che compongono le formule magiche. La realtà mi va un po' stretta o viceversa, ma ho ancora spazio e modo per trovarne la giusta misura. Scrivo a caso, però manco troppo: lo faccio per gioco e lenimento. Se fossi Joyce non mi troverei qua, ma in una tomba di Zurigo. A me non interessa il flusso di coscienza, bensì che quest'ultima resti in castigo il tempo necessario affinché le sue silenti compagne ricevano udienza. Per qualcuno i grandi insegnamenti vanno bene solo quando tutto va bene, come se le cause dovessero fare pendant con gli effetti: d'altronde le mode vanno e vengono proprio come le vite umane. Le differenze sostanziali si facciano carico delle loro presentazioni o periscano: io sono assicurato contro la vaghezza. Litighiamo, amiamoci, creiamo nuovi mondi o estinguiamo quello che diamo per scontato. Ectopirosi, once again.
All'aquila invidio il volo, l'apertura alare e soprattutto il suo dono, come per mano di Castaneda. Non mi sono mai stati concessi dei sogni lucidi, ma un tempo ne possedevo degli altri che invece non si sono mai concessi alla realtà: quasi proibiti i primi, altezzosi i secondi.
Abbraccio lo schienale d'una sedia su cui non si metterà mai nessuno: anche le assenze hanno i loro posti riservati e tali rimarranno (riservati). L'alba, un giorno nuovo e l'ottimismo che non stride con la realtà dei fatti: tanto può il riposo, la fiducia in sé stessi e chissà quante altre cose di cui non mi avvedo. Con il naso all'insù guardo per un momento quello che c'è.

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2
Mag

Archivio onirico: sogno n. 20 / Mantra ed esperienza onirica

Pubblicato sabato 2 Maggio 2015 alle 15:47 da Francesco

La scorsa notte ho fatto un sogno bellissimo, del tutto stridente con quanto l'inconscio mi ha passato sottobanco nell'ultimo periodo: mi sono interrogato su quest'inversione di tendenza.
È pomeriggio, il cielo è grigio ma il mare calmo e io cammino su degli scogli per cercare un ingresso nella falesia che mi sovrasta. Non trovo alcuna entrata e chiudo gli occhi: quando rialzo le palpebre mi trovo in una casa con le pareti bianche. Accanto a me siede una donna che ha più di cinquant'anni, ma è ancora bellissima e intona una canzone che conosco bene.
Mi guarda, mi bacia su una guancia, mi sorride e continua a emettere ogni nota con precisione e disinvoltura, come se per lei non ci fosse alcuna differenza tra l'eloquio e il canto; all'improvviso s'interrompe, mi sorride, mi dà un altro bacio sulla guancia e poi mi stringe a sé, spalla contro spalla. Io provo un profondo affetto nei suoi confronti e sono pervaso da una dolcezza infinita. L'altra alza lo sguardo verso il soffitto e i suoi occhi trascinano i miei, ma torniamo a guardarci quasi subito e lei si rivolge a me: "Queste pareti non sarebbero più belle se fossero dipinte?". Replico con un sorriso, lo stesso che giace sul suo volto: ne resto incantato.

Nella scena iniziale il mare è calmo e il cielo grigio perché più o meno tutto continua a scorrere (panta rei) anche se io non trovo il modo di entrare in un cuore, ovvero la falesia del sogno. L'improvviso cambio di scena mi conferma che non deve esserci una ricerca poiché tutto avviene senza preavviso: ecco perché dopo un batter d'occhio mi ritrovo accanto alla deuteragonista.
La donna e l'affetto che mi manifesta non hanno un valore erotico, ma per me rappresentano i desideri di complicità e piccole attenzioni che capeggiano le mie fantasie affettive più profonde.
La domanda della donna è retorica e suona come un invito a dipingere quelle pallide pareti: si tratta di una scena quasi materna, un affettuoso sprone nei mi confronti.

Questa volta non sono molto interessato all'interpretazione del sogno perché i suoi significati aggiungono poco al quadro degli ultimi tempi, ma voglio fare un'ipotesi sulla sua origine.
Forse l'inconscio può veicolare i propri contenuti in una forma più o meno piacevole, così come lo stesso concetto può essere spiegato in maniere diverse, e difatti anche in quest'occasione mi è stata ribadita la mia mancanza d'amore, però in una forma nient'affatto cupa o minacciosa, anzi, amorevole come la premura di una madre divina.
Il giorno prima del sogno ho ascoltato a lungo il moola mantra cantato da Deva Premal (ma la donna del sogno non era lei poiché aveva più primavere e i suoi capelli erano corvini) e quando ne ho analizzato il ricordo, dopo una rapida associazione d'idee, mi sono chiesto se in qualche misura quel mantra non fosse penetrato al di sotto della mia coscienza; anche se nel sogno la sensazione d'incanto era più marcata, mi ha ricordato un po' quella che ho provato quando mi sono prestato all'ascolto piacevole e prolungato di quel kirtan.
Al fine di scongiurare certe derive, il mio approccio a determinati temi è quello di un tardo illuminista, perciò mi baso sulle mie esperienze per farmi un’idea della mia realtà soggettiva. Suppongo che il mantra (di cui io so fruire solo nella commistione di kirtan e musica occidentale) possa sortire degli effetti variabili a seconda di chi ne fa esperienza, ma in tale ipotesi riconduco tutto al campo fisico delle vibrazioni (senza esserne in grado di teorizzarne alcunché).
Di certo su di me agisce anche (o forse soprattutto) ciò di cui non conosco il significato.

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