28
Mag

Cento chilometri del Passatore 2014

Pubblicato mercoledì 28 Maggio 2014 alle 08:44 da Francesco

Sabato ho corso la cento chilometri del Passatore per la seconda volta e sono di nuovo riuscito a terminarla benché il mio tempo sia stato più alto di circa cinquantaquattro minuti rispetto a quello dell’anno precedente: nel 2013 impiegai 9 ore, 40 minuti e 54 secondi per raggiungere piazza del Popolo a Faenza, in quest’edizione invece ho fermato il cronometro 10 ore, 34 minuti e 31 secondi dopo lo start che è avvenuto in via dei Calzaiuoli, in quel di Firenze.
Fino al Passo della Colla tutto è filato liscio e infatti, da quanto m’è stato riferito, ero tra i primi novanta benché abbia impiegato quattordici minuti più dello scorso anno per scollinare al 48° chilometro. Fino a Marradi, al 65° chilometro, ho mantenuto un passo che mi proiettava ancora sotto le dieci ore, ma dopo il 70° ho avuto dei crampi ai polpacci e all’addome, dolori così lancinanti per i quali mi sono dovuto stendere sull’erba al lato della strada mentre passavano le auto. Una volta a terra, nel buio della notte e in quello del cuore, ho spinto le gambe contro una recinzione: dopo un po’ è sopraggiunto un altro podista che s’è fermato quasi un minuto per aiutarmi. Quando costui è ripartito io sono rimasto qualche altro secondo disteso e mi sono chiesto se avrei fatto lo stesso qualora i ruoli fossero stati invertiti: ho pensato subito di sì, ma ne sono diventato certo prim’ancora di rialzarmi per ripartire.
Verso Brisighella mi sono dovuto fermare una seconda volta per dei conati di vomito, forse un principio di congestione che mi sono procurato con l’assunzione di troppi liquidi: insomma, mea culpa, ho fatto qualche errore d’integrazione. Qualche chilometro dopo, prima del 95°, si sono ripresentati i crampi: bentornati! Seppur di minore intensità, i dolori alle gambe mi hanno fatto crollare di nuovo a terra e ho impiegato oltre un minuto per riprendermi. All’ultimo ristoro, quello del 95° chilometro, ho bevuto del the caldo e mi è sembrato la panacea di tutti i mali perché mi ha permesso di correre gli ultimi cinquemila metri sotto i sei minuti al chilometro: una velocità stellare per la condizioni in cui ero ridotto e con i quasi cento chilometri che avevo già macinato. Ho riguadagnato diverse posizioni e mi ha davvero sorpreso il cambio di passo che mi sono imposto, però avrei preferito che una tale brillantezza fosse stata spalmata meglio negli ultimi trenta chilometri.
Ora mi domando dove io abbia trovato quel vigore finale. Forse dopo il superamento di un limite s’apre per un po’ una comoda strada che ne introduce di più tortuose. La mia tenuta mentale è stata ottima e ne sono felice perché mi ha dato buone indicazioni su quanto esula dallo sport.  Ho patito molto in questa cento chilometri, è stata la mia gara più lunga in assoluto e penso che mi abbia aiutato ad incrementare la mia soglia di sopportazione del dolore (che fa tanto comodo anche nella vita), ma alla fine sono riuscito a concluderla con un dignitoso 204° posto su 1738 atleti arrivati e su 2198 partiti.
Penso che ormai abbia dato il meglio di me nell’ultramaratona, perciò ho intenzione di dedicarmi a distanze più brevi, almeno per qualche tempo, però è sempre facile ricascarci…
Invero la cosa migliore sarebbe che io cominciassi a scopare.
Ad maiora.

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18
Mag

Tra simili finitezze

Pubblicato domenica 18 Maggio 2014 alle 08:19 da Francesco

Giorni fa mi sono recato in un negozio per fare delle compere e là ho cominciato a parlare con il gestore che non aveva soltanto cose da vendere, ma ne serbava anche di interessanti da dire. La conversazione s’è protratta per circa due ore ed è stata una delle più piacevoli di tutta la mia esistenza. Nessuno ha tentato di convincere l’altro, bensì v’è stato uno scambio di vedute che ci ha portato sulla stessa lunghezza d’onda nonostante tra noi vi fossero trascurabili differenze. Mi ha fatto riflettere una frase che egli mi ha detto e che rischia di suonare un po’ banale fuori dal contesto in cui è stata espressa: “Se la morte può prendermi solo in vita, allora la vita non può che prendermi nella morte”. Questo assunto per qualcuno garantisce la reincarnazione, ma da ateo io non riesco a convincermi di nulla, neanche del ciclo delle rinascite (la metempsicosi, o, nella fattispecie, il samsara).
Ho notato che la mia prima associazione d’idee alle parole suddette è stata con un proverbio indiano abbastanza celebre: “L’uomo dice che il tempo passa, il tempo dice che l’uomo passa”. Ieri invece m’è capitato sotto gli occhi un articolo pressappochistico che descriveva la teoria secondo cui l’universo è destinato a finire; avevo già letto qualcosa in merito sulle pagine di una rivista scientifica e quello scenario (o meglio, la negazione d’ogni altro) non mi aveva disturbato. Mi domando se qualche volta il desiderio di tornare a vivere non sia dettato semplicemente da quello di ritornare ai tempi dell’infanzia. Per quanto io trovi affascinanti certe prospettive, il mio senso critico (che non si limita alla mera ragione, ma anche a delle intuizioni) non mi dà modo di aggrapparmici e invero non me ne dispiaccio affatto. In altre parole io sono solo al cospetto del nulla; addirittura? Cose grosse! Volano paroloni. Prendo tutto (o quasi) alla leggera perché già non peso molto da vivo ed escludo che la morte possa ingrassarmi. Ho perso il filo del discorso e sono venuto meno agli intenti iniziali di questo appunto, ma in verità non volevo ridurre a mo’ di compitino una descrizione che forse non sono in grado di fare: che lavori l’immaginazione!

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15
Mag

Placide transizioni

Pubblicato giovedì 15 Maggio 2014 alle 21:23 da Francesco

Mancano otto giorni all’alba d’una vigilia importante. Ho la mente sgombra, non avverto alcuna forma di tensione e mi sento pronto a sostenere la prova che m’attende. Riesco a mantenere la concentrazione più di quanto sia mai riuscito a fare in passato e ne approfitto nelle mie letture. Continuo a non avere granché da scrivere, ma questa penuria di argomenti è dovuta anche alle giornate intense che mi fagocitano tempo ed energie: mi auguro che l’estate oltre ad alzare le temperature incrementi anche la frequenza dei miei appunti.
Non sono asserragliato in una torre eburnea di abitudini radicate, anche perché una di queste prevede che io mi tenga informato su ciò che accade in patria (dove secondo i latini nessuno è profeta) nonché sulle vicende del resto del globo (invero sempre le stesse).
Ogni tanto ricevo degli elogi immeritati, viziati da idealizzazioni o da fraintendimenti ed erronei come potrebbero esserlo le critiche che per ora non mi pervengono (non in faccia, almeno), ma anche se qualcuna mi fosse rivolta non cambierebbe nulla perché in questi tempi d’austerità non compra più manco chi disprezza; io comunque offro solo il baratto: coscienza per coscienza.

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11
Mag

Ribadire

Pubblicato domenica 11 Maggio 2014 alle 13:43 da Francesco

Alcune delle cose più importanti restano ascose (cioè nascoste) perché talvolta non è possibile dirle in un modo che ne salvaguardi la portata emotiva. Certe parole mi sembrano destinate al deterioramento semantico, perciò trovo che il tempismo del loro impiego sia importante quanto il messaggio di cui si fanno portatrici. Accidenti, quanta prosopopea per descrivere ciò che i greci indicavano con sei lettere appena: kairos.
L’inconscio è un deposito promiscuo e sarebbe bello se certuni potessero visitarlo per cercarci qualcosa di utile come in una discarica a cielo aperto; se ne fosse vietato l’ingresso agli estranei allora non potrebbe entrarci neanche il proprietario, tuttavia immagino che spesso sia già così. Mi pare difficile stabilire contatti che meritino di essere stabiliti e trovo altresì arduo rinsaldarne di pregressi. Mi domando se esista davvero un metodo che aiuti ad affinare sempre più la capacità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: non mi riferisco né alla fortuna né ad alterazioni del suo proverbiale bendaggio. Conosco la legge dell’ottava, però non la prendo in considerazione perché non ho l’indole adatta. Alla soglia dei trent’anni mi sento in un perfetto equilibrio tra due opposte sensazioni. So che una parte di me (forse una delle migliori) non è ancora emersa perché non sa dove rifrangersi, ma allo stesso tempo so che faccio bene a non compiere forzature in tal senso: ogni cosa deve essere naturale oppure non dev’essere affatto. La mia resistenza è tutta in questa consapevolezza, la quale può essere considerata un dono (ancorché meritato) o una condanna a seconda dei punti di vista, qualunque sia il tipo di cecità.

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