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Perfezionamenti postumi

Pubblicato domenica 27 Aprile 2014 alle 08:16 da Francesco

Anni fa sono stato contattato da una ragazza con cui ho poi dialogato per un certo periodo. In seguito, senza mai muovere il primo passo, ho interloquito vìs-à-vìs con altre esponenti del gentil sesso (ebbene sì, a tanto mi sono spinto!), però non ho approfondito nessuna di queste brevi e sporadiche conoscenze: non c’è mai stata insistenza né da parte mia né dall’altra, come in un tacito accordo di reciproco disinteresse. D’altronde le mie intuizioni sono amorevoli sorelle che talvolta assumono l’aspetto spaventevole delle Erinni.
Di S. ricordo una spiccata identificazione con il mondo della cultura, una voce adatta alle ottave basse e un volto asimmetrico, tuttavia questi elementi non rendono giustizia alla sua figura e io me ne frego: il tema è un altro e le auguro invece che la sua avvenenza sia rimasta la stessa. Lentamente, ma con costanza, prese a maturare in me un certo interesse nei suoi confronti, ma già all’inizio profetizzai quali sarebbero state le sorti di quelle nostre conversazioni e forse fu anche per questo che infine si realizzarono nei tempi e nei modi di un’irreversibile indifferenza. Con S. ho sperimentato per l’ultima volta una forma embrionale di desiderio. Vedevo in lei quello che era veramente? E lei, di sé, vedeva le stesse cose? Qual era la discrepanza tra l’immagine che io mi ero fatto di lei, che lei aveva di sé e quella reale? Lo stesso ordine di domande dovrei porlo anche per il sottoscritto, però i punti interrogativi in questo caso sono gli unici punti fermi. In un tentativo di rappresentazione grafica delle dinamiche di cui sopra sarebbe forse uscito un triangolo equilatero? Non oso immaginare quante spade di Damocle pendano su quegli angoli acuti e stretti che indicano una coppia, come nelle relazioni morbose, simbiotiche, ed entrambi a grande equidistanza dal vertice, ovvero da tutto ciò che è reale nell’altro e passa inosservato. Con S. ho commesso degli errori di forma che a distanza di tempo mi hanno fatto comprendere alcune leggi. Il mio sbaglio più grande è stato quello di specificare ogni cosa, di anticiparla e di prevederne i possibili sviluppi, come se avessi voluto rompere una tradizione e dei riti in nome della ragione, ma in questo caso è stata la paura a guidare il mio raziocinio: paradossale, direi. È troppo facile gettarsi in quel vuoto, al quale  tante parole ho tributato, con la certezza che il paracadute si apra. Ho rotto la magia che permea i silenzi e che ne precede la rottura, per questo il rito non s’è concluso e l’incanto è svanito prima ancora che potesse mostrarsi in pieno. Posso fingere lungimiranza e introspezione dal momento che effettivamente me ne avvalgo in termini solipsistici, ma è nella subordinazione alla paura che si trova la prova stessa di quanto queste pratiche utili e nobili diventino fandonie nelle questioni di cuore.
Ad esempio, in questo scritto ricorro all’introspezione, ma sono in un ambito autoreferenziale e dunque non sono chiamato ad affrontare le istanze contro cui finora ho dimostrato debolezza. Inoltre ho sbagliato a ritenere che certi comportamenti fossero per forza meccanici: la difficoltà a mio avviso sta nel compiere determinate azioni con la consapevolezza di farlo, così da renderle autentiche, come se l’autore fosse in grado di vedere se stesso invece di agire a testa bassa.  Quando S. mi propose di venirmi a trovare io subito frapposi tra me e quell’allettante iniziativa una moltitudine di parole che di fatto negarono l’incontro, perciò disinnescai ogni possibile esito, fosse anche stato un fuoco fatuo o una semplice condivisione di spazio e tempo.
In termini più specifici devo scendere a patti con l’inconscio collettivo. Non posso imporre il mio modus operandi per agire in piena sicurezza, altrimenti la fine sarà sempre la medesima, come nella più classica delle coazioni a ripetere. Ci sono riti a cui non posso sottrarmi qualora voglia davvero attuare un passaggio da me ad un’altra persona, perciò tutto dipende dal sottoscritto e questa consapevolezza mi solleva dall’onere di cercare al di fuori di me l’errore di fondo: non è un vantaggio di poco conto e chissà, forse già di per sé vale una vita intera.

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