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Imparare a morire

Pubblicato martedì 14 Agosto 2012 alle 05:41 da Francesco

Qualche settimana fa ho letto Lezioni spirituali per giovani samurai di Yukio Mishima, una raccolta di scritti che comprende anche il proclama con cui egli tentò di risvegliare lo spirito giapponese prima di suicidarsi col rito del seppuku. Anche se in passato ho cercato di entrare nell’esercito io mi considero lontano dal militarismo e non scarificherei mai la mia vita per un ideale, però trovo qualcosa di affascinante nella coerenza di Mishima. Qualche volta mi chiedo se egli si sia ucciso per rispettare davvero il suo pensiero e dare un esempio o se invece egli abbia colto l’occasione in modo da mascherare con l’eroismo una sofferenza insopportabile.
Vorrei appropriarmi dell’essenza del bushido perché credo che soltanto una piena accettazione della morte possa consentire di vivere davvero, ma non ne sono all’altezza, almeno non ancora. Per quanto io mi sforzi, la mia è e resta una mente strutturata in modo occidentale, perciò non posso pretendere di cambiarla con l’autoconvinzione. Non mi spaventa la morte di per sé, ma il dolore che può precederla. Non temo di assecondare quella pulsione che secondo Freud vuole ripristinare lo stato inorganico, ma è il passaggio che temo, ovvero l’attraversamento di quella che qualcuno ha descritto come la porta dello spavento supremo. In tutto questo c’è anche un richiamo al nichilismo, più al concetto di superuomo che all’inclinazione distruttiva, infatti vi vedo la necessità di superare sé stessi per accettare serenamente di superarsi. Malgrado il mio forte ateismo, ho ragione di sospettare che a livello inconscio agisca ancora in me qualche elemento della cultura cristiana, forse interiorizzato in tenera età e sedimentatosi contro la mia volontà. Quando mi confronto con il pensiero della morte mi rendo conto di quante attività diurne siano svolte con l’unico scopo di scacciarlo, però io non voglio consolazioni né distrazioni così forti da negarmi un disagio talmente propedeutico per la dissoluzione.
Non elogio la morte, non ne faccio un totem adatto alle provocazioni adolescenziali, ma la porto al giusto grado d’attenzione per non farmi trascinare via dalle futilità quotidiane a cui talvolta io cedo troppo terreno. Non ho fretta di raggiungere la fine, ma non voglio illudermi che non ve ne sia una. Nella sua apparente mancanza di senso, nella sua antica efferatezza, forse anche nella sopravvalutazione stereotipata di cui è stata vittima, la cultura giapponese, più d’ogni altra, mi ha offerto una visione in cui in tempi passati hanno saputo unirsi bellezza, morte e lucida follia. Un altro accostamento che sono solito fare è quello legato ad un certo satanismo, nel quale il suicidio è una libera scelta a cui ricorrere una volta che sia stato raggiunto il momento apicale della propria vita, perciò ne consegue un esercizio del libero arbitrio lontano dalla disperazione. Mi domando tuttavia come si possa certificare l’autenticità di un gesto del genere, infatti il mio sospetto è che talvolta dietro scelte apparentemente lucide e ammirevoli (almeno dal mio punto di vista) vi siano ragioni più prosaiche. Io vorrei invecchiare bene e vivere oltre i cent’anni, ma potrei rinunciare all’eventuale longevità se in me dovesse farsi strada la capacità di vivere al di sopra della mediocrità in cui sguazzo assieme al resto della ciurma. Un discorso del genere pare contorto e contraddittorio, ma io cerco di andare al di là di quanto mi è stato insegnato, al di là di quanto non ho avuto l’accortezza di disimparare, al di là di dell’attaccamento parassitario alla vita a cui sono omologato. Non è facile esporre un tema del genere senza essere inquadrati in una spirale depressiva, in una sterile provocazione o in un esercizio di stile, ma fortunatamente tutto ciò è autoreferenziale e ha un fine migliore dei preconcetti di cui può essere bersaglio, più precisamente ha una fine.

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